BIOS ll SPA BRIN A DAS } N) JA > / per aki — STI) i I Gir EN è. dai = n E È ) ARRE ) MEL ra RIN (8 \ s NA TRI Un (n LAVA La) i IS Al Ha SN tit) a) \N ) CS LAN If SAS € NI RTAS | Le Vir Ù , Dì) ES VARI fe: 5 —ì \ _ TON SR Nih n) SS ì\ “ AA dì: “I DN Ùl p { CLARA FOR DEE NPESEEE FOR EDVCATION FOR SCIENCE LIBRARY OF THE AMERICAN MUSEUM OF NATURAL HISTORY BY GIFT OF OGDEN MILLS ‘agata | tr REALE ACCADEMIA SOIEAZIE OE 9898 8 SCE IRR DJ UD ALI IR IMO@ 40 TERZA SERIE (Anno 1896) o Volume IV. VITI PALERMO TIPOGRAFIA F. BARRAVECCHIA E FIGLIO 1897 L'ACCADEMIA, ai termini del suo Statuto, non sì rende garante delle opi- nioni, de' sistemi e delle dottrine comprese ne’ discorsi dei suoi componenti qui pubblicati. Si SF, TAVOLA DELLE MATERIE Magistrato Accademico SampoLo Pror. LurGr. — Relazioni Accademiche per gli anni 1893, 1894, 1895. Pel III. Centenario della morte di Torquato Tasso. — Solenne adunanza del 19 mag- gio 1895 — Iscrizione e due distici latini del Can. Prof. Giuseppe Montalbano; Cenni del Segretario generale Prof. Luigi Sampolo e del Presidente Prof. Vincenzo Di Gio- vanni; Discorso del Prof. U. A. Amico; Poesie delle signorine Rosalia Majorca Mor- tillaro e Albina Buonpensiere de Baggis. CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE Zoxa DoTrTt. TeMISsTOCLE. — Nuova ipotesi sui terremoti. SoLer Ixg. E. — Sull’espressione delle superfici minimali mediante speciali parametri. » » — Su talune superfici connesse ad una certa deformata della sfera. CLASSE DI LETTERE ED ARTI Lacumina Can. BartoLomEo. — Le Giudaiche di Palermo e di Messina descritte da Obadia di Bertinoro. PaoLucci Pror. Gruseppe. —- Il Parlamento di Foggia del 1240 e le pretese elezioni di quel tempo nel Regno di Sicilia. DI BarroLo Can. DorT. SALvaTORE. — Il lavoro della civiltà per la pace in occasione di una recente opera di un giurista tedesco. Di Giovanni Pror. Vincenzo. — Paolo Caggio e Pietro Corsetto o l'Accademia degli Accesi e de’ Riaccesi di Palermo nei secoli XVI e XVII. COMUNICAZIONI Risultati delle osservazioni Meteorologiche eseguite nel R. Osservatorio di Palermo (Valverde) per gli anni 1895-96. PATRONO IL MUNICIPIO DI PALERMO PROMOTORE IN Sindaco di Palermo: COMM. EUGENIO OLIVERI. === === MAGISTRATO ACCADEMICO Presidente DI GIovaNNI Comm. Vincenzo, Vescovo titolare di Teodosiopoli, Profes- sore di Storia: della Filosofia nella R. Università di Palermo, Mem- bro dell’Istituto di Francia. Vice- Presidenti GEMMELLARO Comm. Gaetano Giorgio, Professore di Mineralogia e Geo- logia nella R. Università di Palermo, Senatore del Regno. Ricca SALERNO Comm. Giuseppe, Professore di Economia Politica nella R. Università di Palermo. Segretario generale SampoLo Comm. Luigi, Professore di Diritto Civile nella R. Università di Palermo. Classe di Scienze Naturali Direttore CALDARERA Comm. Francesco, Professore di Meccanica razionale nella R. Università di Palermo. Anziani CERVELLO Comm. Vincenzo, Professore di materia Medica e Farmaceu- tica sperimentale nella R. Università di Palermo. VAXCFKXFXKFXKXKXKXNKKNKKNKKATTTTTKNKAK--C<<<- Va CA Va2VA NINNI RELAZIONE PER L'ANNO 1893 LETTA nel 15 aprile 1594 n SommarIo : Sede per gli uffici della Accademia — Terzo volume degli Atti — Causa D’ Andrea — Centenario di Antonio Veneziano : V. Di Giovanni; L. Sampolo; U. A. Amico. — Letture: Sulla Messione dell’ ottone di M. Cantone — Elogio di Raffaello Busacca per Luigi Sampolo — I diritto di guerra secondo gli antichi giuristi ita- liani di Giuseppe Salvioli — Prolegomeni a’ monumenti preellenici di F. S. Caval lari — Ricordo di illustri Soci trapassati : Girolamo Ardizzone ; Giuseppe Meli ; Sal- vatore Cusa: Giuseppe Castronovo; Arcangelo Scacchi; Alfonso De Candolle; Giovanni Fraccia; Emanuele Notarbartolo; Marchese Roccaforte; Eliodoro Lombardi. Signori, È lodevole consuetudine che inaugurandosi 1’ anno accademico si ricordino alla nostra assemblea i fatti più importanti della vita della Accademia, e le letture che vi si sono fatte, e i nomi dei nostri illu- stri trapassati. Toccandomi per la seconda volta questo onorevole uf- ficio, aggiungerò altra pagina alla storia dello Istituto. La Accademia in questo Palazzo ha la sua nobile sede fin dal 1791; ma non si ha un luogo ove si possano collocare i libri, tenere gli uf- ficii di presidenza e di segreteria, e riunire il Consiglio Accademico. Era questo ed è presentissimo nostro bisogno. I libri, i registri, le nostre memorie si sono perduti, perchè libri e registri si trasferivano dall’una casa all’altra dei Segretarii Generali. Oggi, mercè la cooperazione dell’illustre nostro Presidente, gli uffici sono collocati nella piccola stanza della Biblioteca Comunale esistente 4 RELAZIONE PER L'ANNO 1893 nel portico, ove era la biblioteca circolante della nobile Duchessa di Serradifalco, marchesa di Torre Arsa. Per arredare la quale sala di tavoli, di scaffali e di altre cose abbisognevoli s’invocò l’aiuto dei soci, e Voi rispondeste ben volenterosi all’appello. Però non è possibile avere per sede quell’angusta saletta. E ci duole che tanta copia di preziose collezioni, che invano si cer- cano nelle due grandi Biblioteche, non siano disposte in luogo ben adatto sì che i socii possano trarne profitto. La Presidenza si rivolse tempo fa all'Assessore per il patrimonio, e si ebbe la più benevola risposta, avendole scritto che a lui «si por- geva bella occasione di dimostrare il suo vivo interesse per un Istituto ch'è decoro della Città ». E ci si offrivano poche stanze del Palazzo Ran- chibile in via Alloro, già addette alla Direzione teatrale; sede non bene adatta se fosse stata definitiva, ma ben da accogliersi come un luogo provvisorio, perchè assai più ampio di quello al presente occupato. Però , quando si chiedeva il permesso di trasportarvi le cose nostre, incominciarono le titubanze che si mutarono più tardi in certezza; quelle poche stanze erano state per altri usi cedute. Non restavano che due misere stanzette, ci vennero offerte. La presidenza stimò decoroso ri- fiutarle. Il vicerè Caramanico, a 5 agosto 1791, consenti che i letterari con- vegni dell’Accademia del Buon Gusto si continuassero nel Palazzo Se- natorio. Ed era anche in questo il nostro Archivio; non sappiamo quando siasi trasportato fuori. La presidenza ha insistito presso il Sindaco, e spero chel’attuale Giunta vorrà sodisfare questo nostro urgentissimo bisogno. Il terzo volume della terza serie dei nostri atti non si è pubblicato. Non manca il materiale, anzi abbonda, mancano bensi i mezzi. Le nostre entrate sono pochissime; si vive col sussidio dei Municipio, il quale in cento e più anni da L. 89, 25 pari ad onze È è stato acere- sciuto fino a L. 2000, e dell’ultiimo aumento siamo debitori al socio com- mendatore Armò, che seppe con l’eloquenza della sua parola farci rad- doppiare l’assegnamento. Assottigliato questo per gli stipendi, e per il pagamento di qualche debito per la causa D’Andrea, e per la stampa del volume precedente, quel che ne avanza, non è bastato alla pubblicazione del terzo. Il desiderio del Presidente e mio di pubblicare un volume all’anno, non è stato possibile recar in effetto. L'Accademia ha il titolo di Reale, e le nomine dei soci sono confer- mate con decreto del Re. Ma dal Governo non abbiamo alcun aiuto, RELAZIONE PER L'ANNO 1893 5) mentre largamente provvede al mantenimento dei grandi istituti scien- tifici. La nostra Accademia non è meno importante di altre; essa è tenuta in grande estimazione in Europa e in America. Noi ci rivolgeremo al Ministro perchè ci desse qualche sussidio an- nuale, ma i tempi non corrono propizi ai nostri desideri. Il titolo reale è bello; ma innanzi tutto bisogna vivere, come si ad- dice ad un antico e nobile istituto. Se non si pubblica almeno un volume di Atti ogni anno, e si torna ai tempi quando gli Atti si pubblicavano a non brevi intervalli, la vita a poco a poco s’intisichisce, e poi si muore. La Provincia che pur soccorre altri istituti e fa uno assegnamento al Consorzio Universitario, non dà nulla a noi; e bisogna instare presso il Consiglio Provinciale per ottenere qualche cosa, affinchè si possa meglio rispondere a’ fini dell’Accademia. A voi è noto che il Marchese Francesco D’Andrea, istituiva eredi in un quarto delle sue sostanze il Collegio Ni Belle Arti di Napoli e la nostra Accademia, da farne premi per concorsi 4’ cultori di liberali cogni- zioni. Era per noi una fortuna. Le nostre sorti si sarebbero mutate; poveri oggi, domani avremmo un patrimonio. Però gli eredi legittimi del Marchese impugnarono di nullità il testamento per cagione di demenza. Noi ne sostenevamo la validità, perché le stranezze, le eccentricità (qual'è l’uomo pur sano di mente che non abbia le sue) non rendevano il Mar- chese D'Andrea incapace al tempo in cui scriveva il suo testamento. La causa ebbe inizio nel 1879. Sono corsi 15 anni, vari incidenti si sono sollevati, e varie sentenze profferite. Gli attori hanno opposto che l'Accademia nostra non sia capace di succedere perchè non riconosciuta come ente giuridico. Da noi si produsse la lettera viceregia del Mar- chese Caramanico che, supplendo di sua autorità alla mancanza di legit- tima approvazione, concedeva alla Accademia la personalità. Non fu dichiarata sufficiente ed efficace la prova della personalità giuridica ; insistiamo da una mano presso l’autorità giudiziaria, e dall’altra abbiamo chiesto al Governo che sia riconosciuta 1’ Accademia nostra ente morale. Se le sorti del giudizio ci saranno propizie, l'Accademia avrà un pa- trimonio suo, e potrà meglio che adesso più decorosamente sostenersi a vantaggio delle lettere e delle scienze. La tornata solenne fu quella del 25 agosto nella quale celebrossi il terzo centenario di Antonio Veneziano. Un nostro socio, il prof. Pitrè annunziò su pei giornali che ricorrendo il terzo secolare anniversario 6 RELAZIONE PER L'ANNO 1893 della sciagurata morte dell’ illustre Monrealese, conveniva che in Pa- lermo ove egli visse e morì, e in Monreale che gli diè i natali, si facesse solenne ricordanza del Poeta. La Società Siciliana per la Storia Pa- tria, e la nostra Accademia tennero per quell’ avvenimento apposite solenni tornate. Queste feste onorano le città che serbano sacre le me- morie dei loro grandi. Appesa ad una delle porte di questa sala leggevasi una bella iscri- zione del nostro socio can. Giuseppe Montalbano. La sala era gremita di elettissimi uditori, notavansi i rappresentanti del Governo e del Municipio, i soci onorari cav. Francesco Crispi e- comm. Giacomo Armò, il Sindaco e alcuni Assessori del Municipio di Monreale, molti letterati, e non poche signore e signorine. Il nostro Presidente disse acconciamente che l’ Accademia onorava in quel giorno uno dei migliori ingegni di Sicilia che fu socio dell’Ac- cademia degli Accest. Il Segretario Generale tessè brevemente la vita dell’illustre Monrea- lese, accennandone gli studf'e rilevando la versatilità del suo ingegno, e l’indole poetica ed acre, il carcere e le torture da lui patite. Ricordò che nella storia delle arti e delle lettere fisurano due Veneziano col medesimo nome: l’uno da Venezia, eccellente per le sue pitture e specie pei suoi affreschi nel cimitero di Pisa, l’altro illustre poeta vernacolo, e chiaro latinista del secolo XV, vanto di Monreale, gloria di Sicilia. Il prof. U. A. Amico cui fu dato l’incarico di commemorare il poeta. Monrealese, avea dovuto con molta fatiga raccogliere i lineamenti del suo soggetto sparsi in autori fra se discordi e in documenti rinvenuti dopo lunghe ricerche. Dicendo dell’indole, delle disgrazie, degli amici e della morte sven- turata del poeta, ci trasportò a quei tempi di grandi sventure e di ingegni immortali. La critica letteraria delle opere del poeta egli seppe bene intrecciare con la biografia, e ragionò di quella prosa bellissima nella quale il Mon- realese svolge il concetto della parte ornativa della grandiosa fontana pretoria. Ed ebbe agio di riportare alcuni distici di lui di sapore greco, e parlò del suo stile latino che ritrae la bellezza delle forme di Pro- perzio e di Tibullo. Dimostrò poi come il Veneziano nella sua Celia sia stato il più grande innovatore della maniera petrarchesca , facendo rilevare con belli raffronti, quali ottave di attica fattura, quali soavi melodie sapesse egli comporre quando si ispirava ad un concetto del Petrarca (1). (1) Per la solennità centenaria di Antonio Veneziano, discorso letto alla R. Acca- RELAZIONE PER L'ANNO 1893 La elettissima prosa dell’illustre professore attirò l’attenzione di tutti, ‘e fu accolta da calorosi applausi. Ogni classe ha dato il suo contributo alle nostre adunanze. Incomincio dalla prima ch’è delle scienze fisiche e naturali. Profano in queste discipline, io leggerò un sunto del lavoro sulla /lessione del- l’ottone comunicatomi dallo stesso autore prof. M. Cantone. Egli studia i fenomeni di elasticità sotto un punto di vista nuovo. Esamina le deformazioni tenendo conto dei processi meccanici cui prima furono assoggettati i corpi che si cimentano, ed analizzando i particolari dei cicli di trasformazione, sia che si operi per forze agenti sempre nello stesso senso, sia che si sperimenti fra i limiti di forze uguali e di senso opposto. Prova nei due casi risultati analoghi a quelli ottenuti dal Warbury e dall’ Ewing per il magnetismo indotto, cioè che ritornando al medesimo valore della forza estrema relativa a ciascun ciclo, si ritorna alla stessa deformazione, ma | andamento del feno- meno per le due metà del ciclo è diverso, in guisa da aversi un lavoro compiuto dalle forze esterne, che si trasforma in calore. Mostra come a tal fatto si colleghi lo smorzamento delle oscillazioni di un corpo che vibri in virtù delle forze elastiche, e come perciò non vi sia bisogno d’invocare una resistenza speciale per la dinamica dei fenomeni elastici. Riporta altresi nel campo della statica il processo di accomodazione e l’influenza delle scosse, e studia in ultimo la legge di deformazione del corpo che si porta dallo stato naturale per dedurne 1’ inammissibilità della legge di Hooke anche nel caso di piccole deformazioni (1). Passo alla classe di scienze morali e politiche. Chi ha l’ onore di parlarvi lesse l’elogio di Raffaello Busacca, con- sigliere di Stato, Senatore del Regno, ministro della Finanza in Toscana. Accennò allo stato politico, e a quello delle scienze e delle lettere in Sicilia al tempo in cui egli si mostrò scrittore; esaminò il suo primo lavoro sull’Istituto d’incoraggiamento e sull'industria Siciliana; i suoi lavori ‘economici sui pr/v/legî e la libera concorrenza, sulla questione degli zolfi; accennò al concorso per la cattedra di economia civile nella nostra Università, e il successo a lui non favorevole, il suo stabilirsi in Fi- demia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo ai 20 di agosto 1895. — Firenze, Ti- pografia G. Barbera, 1894. (1) Leggesi questa memoria nel vol. III della 3® Serie degli Atti. 8 RELAZIONE PER L’ANNo 1893 renze, i lavori da lui fatti nella Accademia dei Georgofili. e la introdu- zione all’opera del Brougham; la memoria di lui : la Stedlia politicamente considerata rispetto a Napoli e all'Italia. Ricordò gli avvenimenti del 1859 e i fatti di Toscana — l’ esilio del Gran Duca, il Governo provvisorio col Buoncompagni a capo e poi con Bettino Ricasoli, e il ministero di finanze assunto dal Busacca sotto l'uno, conservato sotto l’altro. Ricordò altri lavori politici ed economici di lui; e com’egli alla Ca- mera dei Deputati e in Senato prendesse parte a tutte le discussioni più importanti di finanza e di economia politica (1). L'età dei Comuni fuin Italia splendidissima, serive Cesare Balbo. Se in quattro secoli di libertà non furono capaci di procacciare la indi- pendenza, quella loro libertà generò la più splendida, più varia, più nazionale cultura che sia mai stata. Con lo ingentilirsi della nuova lingua, con le lettere e le arti che si levarono a straordinario splendore, fiori in Bologna lo studio del diritto romano che fu novello faro di civiltà a tutte le genti. I Glosatori get- tarono i primi fondamenti del diritto internazionale privato. Non bastando i principii generali insegnati nelle istituzioni di Giu- stiniano sulla giustizia e sul diritto, sì creava una scienza del diritto naturale. Era insufficiente ciò che in quelle si diceva sull’ordinamento delle città, sui delitti, sopra alcuni contratti commerciali, sopra le azioni, e si creavano dottrine speciali di diritto pubblico, di diritto penale, di diritto commerciale, di diritto giudiziario. Il prof. Salvioli che nel 1884 aveva trattato nell’ Università di Ca- merino, / diritto di guerra secondo gli antichi giuristi Italiani , volle stu- diare il diritto internazionale pubblico di pace e di guerra dei nostri comuni. Dopo aver ricordato come i comuni italiani vivessero quasi sem- pre in guerra fra loro, e l’Italia era di dolore ostello, Nave senza nocchiero in gran tempesta Non donna di provincie, ma bordello, dice che le guerre mantennero quasi sempre un carattere di umanità e di mitezza, e che da questo originò un dritto internazionale di guerra e di pace, ispiratosi a principii più elevati ed umani di quelli che si incontrano negli Stati feudali della stessa epoca. Egli esamina le procedure preliminari alla dichiarazione di guerra, l'invio di amba- sciatori circondati di rispetto, e ricorda come i cittadini fossero chia- mati a deliberare della guerra e come muovessero a battaglia. (1) Leggesi questo Elogio nel vol. III degli Atti. RELAZIONE PER L'ANNO 1893 9 Ricorda poi il buon trattamento dei feriti e dei prigionieri verso i quali si faceano soltanto dimostrazioni di scherno, queste pratiche mette in opposizione con quello facevasi da’ Crociati coi prigionieri musulmani, e da’ guerrieri di Francia e d’Inghilterra e dai soldati dell’impero verso le città conquistate (1). Come nota giustamente Stuart Mill, la nozione del valore è fonda- mentale in economia politica. Quasi tutte le speculazioni relative agli interessi economici, egli dice, implicano una teoria qualunque del valore; il menomo errore in questo argomento rende erronee tutte le conclu- sioni che son conseguenza del primo; se e’ è alcun che di vago e di nebuloso nell’idea che noi ci formiamo del valore, tutto il resto delle nostre idee economiche sarà pieno di confusione e d’incertezza (2). Il socio prof. Ricca Salerno nel suo lavoro Sw/a teoria del valore mira a risolvere le più gravi quistioni, rimaste finora insolute, nella dottrina della economia classica, specialmente quelle riguardanti la distribuzione. Esposto il principio della utilità finale, com'è inteso e dimostrato dai nuovi economisti inglesi ed austriaci, ne stabilisce 1’ equazione fonda- mentale col lavoro. Indi dimostra che la medesima equazione rimane inalterata, benchè assuma una forma complessa, nei casi in cui differiscono le condizioni territoriali e capitalistiche della produzione. In questo modo spiega le deviazioni apparenti del valore dalla quantità di lavoro, derivanti dal diverso periodo produttivo, e il profitto che vi si connette. Discutendo largamente le opinioni e le dottrine svariate degli eco- nomisti intorno all’ argomento, le ricongiunge a questo svolgimento storico del valore, il quale non solo si compie nell’ordine dei fatti, ma si riflette eziandio in quello delle idee. La distribuzione moderna è un complesso di rapporti che si formano nella storia, una derivazione della legge dinamica del valore (3). Ultima è la classe di lettere e belle arti, ma non ultimi per pregio furono ì lavori recitati da’ suoi soci. Il socio prof. A. Pellegrini lesse Sulle Danze macabre nel secolo XVI dipinte a Pinzolo e a Carisolo nel Trentino. (1) Vedi questa memoria nel citato vol. III degli Atti. (2) «Jean Stuart Mill Principes d’économie politique » libr. III, cap. I. (3) La teoria del valore nella storia delle dottrine e dei fatti economici. Roma, 1894. Do 4 10 RELAZIONE PER L'ANNO 1893 Nel cimitero di Pisa esiste un mirabile affresco di Andrea Orgagna, rappresentante il tr/0rfo della Morte. Essa ci si mostra con occhi grifagni, con ali di pipistrello, con coda e con artigli; è vestita di maglia ferrata; giacciono presso a lei papi, imperatori, vescovi, abati. I demoni tra- sportano le anime ree in un monte che erutta fuoco; gli angeli del pa- radiso accolgono fra le braccia le anime buone. In un secondo scompartimento è figurata la vita di alcuni eremiti ; in un terzo rappresentata l’allegoria dei Tre morti e tre vivi. Nell’antico spedale di Palermo, oggi quartiere militare, trovasi dipinto ad encausto «il trionfo della morte »; è di Antonio Crescenzio. La morte vien figurata da uno scheletro assiso sopra un cavallo smunto. Essa vibra i suoi dardi, e cadono a’ suoi piedi pontefici, imperatori, regnanti, principi, dottori, genti di ogni età, sesso e condizione. Prevale in queste dipinture il carattere sacro e morale come nei trionfi della morte del Petrarca. In Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra dal principio del se- colo XIV fin quasi alla metà del XVI si perpetuarono le bizzarre rap- presentazioni delle Danze Macabre o Danze dei morti, che consistevano in un ballo di scheletri condotti dalla stessa morte, nelle quali rap- presentazioni anzichè il religioso, campeggia il sentimento sarcastico, umoristico. Nel cimitero della Chiesa dei Domenicani nel sobborgo di S. Giovanni in Basilea è dipinta una danza macabra che attribuiscesi ad Holstein, e vuolsi da essa sia stata ispirata al Goéthe la bellissima canzone: La danza dei Morti. Della quale per la singolarità sua non vi spiaccia sentire le due seguenti strofe stupendamente tradotte dal Maffei, che imitano felicemente l’originale e ci rappresentano la danza. La bieca congrega vuol darsi trastullo; E l’anche e gli stinchi disnoda alla danza. Col povero il rieco, col vecchio il fanciullo, La ridda s’intesse, s'ingrossa, s'avanza. Lo strascico impaccia del lungo lenzuol, E poi che timore non han del pudore, Ne scuotono i terghi, lo gittano al suol. Or s'alzano tibie, si piegan ginocchi, Accadono orrendi, nuovissimi gesti ! Di nacchere a guisa, di tasti mal tocchi, Vi seriechiola e crocchia lo strano tenor. (1) E una fola gretta e vulgare, ma la fantasia dei pittori e dei poeti (1) V. Gemme straniere. Firenze, Lemonnier, 1860. RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Il l’ha così esaltata che la vista di quelle pitture, la lettura di quei versi ci agghiaccia di sublime spavento. In Italia dipinture di danze macabre non ne esistono se non nella parte settentrionale, in Clusone nel Bergamasco, in Como, nel Tren- tino, ove per la vicinanza con oltre Alpi simiglianti argomenti furono anche trattati dai nostri pittori. Il prof. Pellegrini che sedici anni addietro nell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, dava nuove illustrazioni sull’affresco del trionfo e della danza della morte in Clusone, lesse qui una nota intorno alle due Danze Macabre dipinte a Pinzolo ed a Carisolo nel Trentino, ri- ferendone tutte le iscrizioni che giunse a decifrare per intiero, mentre il Bolognini non ne avea letto che una parte (1). Queste iscrizioni mostrano che anche in Italia siffatte rappresenta zioni non perdettero intieramente il carattere sarcastico e satirico che ebbero oltr’Alpe, ed offrono pure qualche interesse per chi studia gli antichi parlari d’Italia. Il socio prof. S. Cavallari leggeva Prolegomeni a’ monumenti preellenici. Le tradizioni classiche ci attestano che già da molti secoli prima di Roma prosperavano in Italia città famose, e fioriva una civiltà che veniva da tempi remoti. Ma le origini italiche sono ancora circondate di tenebre. La vera cagione della sterilità degli scavi è riposta, secondo un illustre scrittore moderno (2), in un concetto confuso e falso della stessa appella- zione d Italia che si dà alle nostre origini. In effetto sono appellati popoli italici, città italiche, necropoli italiche, popoli, città e necropoli, non etrusche, non greche, le quali si trovano nel paese che chiamasi Italia. Una parte del bel paese fu abitata da popoli ariani. Ma innanzi che il nome d’Italia si stendesse alle contrade del centro e del settentrione, esisteva in quella regione posta di mezzo fra il seno Scilletico e il La- metico, fra il mare Jonio e il Tirreno, e quegli Itali eran Pelasgi non Àrii. Le nostre origini debbono chiamarsi italiche nel senso originario e etimologico , cioè di appartenente agli Hethei, come Italia significò paese degli Hethei e però dei Pelasgi. Fintantochè resteranno in piedi quelle superbe mura delle nostre città pelasgiche, come restano ancora quelle di Grecia e dell'Asia Minore, somiglianti fra loro perchè opere di artefici e di popoli affini, le origini della nostra civiltà si appelle- ranno pelasgiche. i (1) BoLoGNINI Nepomuceno, serittore e folklorista trentino, scrisse La valle di Ge- nova e la Danzq macabra di Pinzolo. (2) Degli Hittim o Hethei e delle loro emigrazioni. Ricerche di archeologia biblica italica, memoria del p. Cesare A. De CARA, presentata al IV Congresso internazionale degli orientalisti tenuto a Londra nel settembre 1891 pubblicata dalla Civiltà Cattolica. ID RELAZIONE PER L'ANNO 1893 La quistione sulle origini della Sicilia è la stessa che quella d’Italia. Il socio F. Saverio Cavallari nei suoi Prolegomeni a’ monumenti preel- lenici non ha tolto ad esame le origini dei primi abitatori dell’isola, ma i monumenti preellenici, il quale studio gioverà molto alla conoscenza delle nostre origini. Egli, fatti per mezzo secolo studii pazienti sulle antichità di Sicilia, ha notato le differenze di struttura tra non pochi monumenti dell’isola e del continente italiano, e rilevato il carattere strano di quelli scavati nei tufi calcarei del pendio quasi a picco delle colline e nelle pianure delle contrade orientali ed occidentali della Sicilia. I Siculi, egli dice, a’ tempi di Tucidide abitavano ancora a sud-ovest della estrema parte d’Italia. In vero in questa parte si notano larghe e lunghissime spaccature di terreno, e tra queste una che va fino al comune di Gravina, anzi lo oltrepassa, da ciò il nome di Gravine a quelle spaccature. Ivi si scorgono moltissime opere di escavazione simili a quelle di Sicilia in Sperlinga, in Nicosia, nella Rocca Palta, nella contrada Regamè presso Naro, che al presente servono le une per abitazioni del castello feu- dale , le altre per la conservazione dei prodotti agricoli. Molte delle citate gravine presentano l’aspetto delle cave d’Ippica di Ragusa (Ibla Erea), di Modica; e quivi servono ancora per abitazioni. In Sicilia sono cavate in tufi calcarei, nel continente in un arenario grigio molto resi- stente. Dalla somiglianza delle gravine il Cavallari deduce la prova di ciò che affermava Tucidide: e quindi ne trae che i Siculi dell’Italia si trasferirono nell’isola. Le mura ciclopiche furono costruite dagli Itali o da’ Greci venuti qui innanzi che vi arrivassero Teocle e Archia di Corinto ? Il Caval- lari afferma doversi meglio riferire alla gente più vicina le cui mura sono conformi alle nostre, che ai popoli più lontani. I monumenti preellenici sono anteriori o posteriori a quelle mura? Certa cosa è che in quei monumenti scavati recentemente l’arte è sta- zionaria, di data remotissima. Il Cavallari investiga gli avanzi del culto religioso degli antichi popoli Siciliani. Si adoravano qui Cerere, Proserpina, Ercole, Plutone, Venere, le muse Ciane e Aretusa, numi italici. Sulle colline fra cui scorre il Cimarosa si notano molte opere di esca- vazione, le quali per la loro forma e capacità non si possono riferire nè a tombe nè ad abitazioni, e però egli ritiene vi si esercitasse il culto reli- gioso da un popclo che abitava la Sicilia prima dell’arrivo dei Greci (1). (1) L’illustre prof. S. Cavallari ha lasciato inedita l’opera I Monumenti preelleni ci în Sicilia. Si sa che il figlio di lui ing. Salvatore ne farà la pubblicazione. RELAZIONE PER L'ANNO 1893 13 Queste furono, o Signori, le letture che i nostri soci fecero nella Accademia, letture che hanno non lieve importanza nei varii rami dell’umano sapere. Tocca ora a me il doloroso compito di rimemorare i nostri illustri trapassati: ciò non feci nella relazione dell’anno passato pubblicando- sene nel Bullettino le necrologie, ma non venuto ancora a luce quello del 93, corremi obbligo di farvi breve ricordo dei Soci che mancarono alla vita. La classe di scienze morali e politiche perdeva il suo antico Segre- tario, Girolamo Ardizzone, decano della stampa periodica di Palermo, anzi di Sicilia, antico redattore del Giornale di Sicilia, e poi unico diret- tore. Egli fu letterato non mediocre, elegante verseggiatore, valente tra- duttore di antiche e moderne favelle, noto non solo in Italia, ma anche fuori, come ne fa testimonianza la traduzione di un romanzo di lui / due amori in lingua portoghese testè pubblicatasi. Nella classe di lettere e belle arti si lamentarono le perdite dei pro- fessori Giuseppe Meli e Salvatore Cusa. G. Meli pittore si segnalò nel genere sacro e nell’affresco. Molte di- pinture rimangono di lui, e non pochi affreschi nelle chiese dell’isola. Coltissimo nella storia della pittura, frugò gli archivi delle Chiese e delle Confraternite per iscovrire nomi di pittori ignorati e scovrendone apportò molta luce nella storia della pittura in Sicilia. Non poche ele- ganti monografie di lui si leggono nei più accreditati periodici di eru- dizione e d’arte, e specie nell’Archivio Storico Siciliano. Salvatore Cusa, filologo e paleografo insigne, professore della Univer- sità, dotto quanto modesto, che fu vice-presidente dell’Accademia, ve- niva d’improvviso rapito agli studi. Il ciclo in cui maggiore fu la sua attività letteraria, chiudesi nel de- cennio 1868-1878. Studiò i Codici Arabi esistenti nella Biblioteca Na- zionale, ne compilò il catalogo e ne pubblicò alcun testo. Scrisse due memorie sull’origine del /ok, sulla fregata e sulla denominazione dei venti, memorie che presentò al 53° congresso geografico Italiano. L’opera sua maggiore : / diplomi greci e arabi di Sicilia testi originali è quella che farà ricordare con grande onore il nome di lui che seguitò nobilmente le orme dei nostri sommi diplomatici : Amico, Pirri, Mon- gitore, Schiavo, Tardia, Di Giovanni, Gregorio, Garofalo, Buscemi, Amari. 14 RELAZIONE PER L'ANNO 1893 E altra gloria a lui viene dalla scuola fondata fra noi, la quale si onora dei nomi di Isidoro Carini, Raffaele Starrabba, Antonino Sali- nas, Fedele Pollaci-Nuccio, Giuseppe Spata, tutti soci di questa Accademia. La classe dei soci corrispondenti perdette il maestro Giuseppe Ca- stronovo dei padri predicatori. Questi dettò a’ suoi correligionari, lettere, sacra eloquenza, teologia, diritto canonico e sacra scrittura, percorse con speciale amore il campo della storia e dell’ archeologia, e scrisse una lodata storia di Erice in quattro volumi, 1873-1888. Serberanno in onore il suo nome gli studiosi di cose patrie ; i suoi conterranei ne terranno sempre viva la memoria, chè egli accoppiando due cose che a’ dì nostri sembrano ad alcuni contrarie, religione e pa- tria, la vita nobilmente spese onorando l’una, illustrando l’altra. Dell’ordine degli onorari mancarono a noi Arcangelo Scacchi, Alfonso de Candolle, Adolfo Franck, Giovanni Fraccia. Il primo (Arcangelo Scacchi) dell’Università di Napoli, sommo geo- logo e cristallografo, professore e direttore del Museo mineralogico di Napoli: autore di pregiatissime opere che a lui procacciarono meritata fama fra noi e fuori Italia. De Candolle abbandonò Temi per Flora e Pomona, e nella botanica ottenne grandi successi. Egli terminò il Prodromus systematis naturalis regni vegetalis, principiato da suo padre, e pubblicò ùna larga serie di studii botanici, tra i quali piacemi citare quella che lo rese altamente benemerito, Geographie, Botanique raîssonnée (Parigi 1855) ispirata a con- cetti originali e filosofici. Adolfo Franck, del quale il nostro presidente lesse una bella notizia, supplì il Barthelemy Saint Hilaire nella cattedra di filosofia greca e latina. al Collegio di Francia, e quivi insegnò più tardi diritto naturale e delle genti. Scrisse molte importanti opere: La philosophie de droit civil , la philosophie de droit penal, la philosophie de droit ecclèsiastigue; notevolissima fra tutte il Dictionaire des sciences philosophiques. Giovanni Fraccia volse i suoi studî alla archeologia e alla numisma- tica; scrisse di Egesta e dei suoi monumenti, illustrò parecchie monete antiche. Fu direttore del nostro Museo Nazionale, e più tardi di quello di Sassari. | RELAZIONE PER L'ANNO 1893 9) Fe’ un accurato studio storico sul famoso trittico Malvagna, uno dei principali ornamenti del Museo palermitano, e dimostrò che il pittore del medesimo fosse quel Giovanni Gossaent di Maubege (Mabuse), au- tore di un quadro al nostro somigliante, che ammirasi nel museo Bahring di Londra. Ne mancarono altri due, i quali per diverse speciali benemerenze ottennero l'ambito titolo di soci onorari. Emanuele Notarbartolo di S. Giovanni, e Lorenzo Cottù marchese di Roccaforte. Il primo combattè sul campo di Solferino; tempra ebbe adamantina; integro amministratore, Presidente dell’ Ospedale Civico, Sindaco, Di- rettore Generale del Banco di Sicilia, alla fermezza del carattere accoppiò larga esperienza di amministrazione e di cose bancarie. Lui ritirato già a vita privata, mentre tornava da Cerda a Palermo, assalirono vi- gliaccamente in un vagone di ferrovia, due assassini, e lui lottante ma impotente a resistere, nè potuto da altri essere soccorso, ferocemente pugnalarono, e uccisero, e ne gittarono fuori sul margine della via il miserando cadavere. Ne raccapricciò la cittadinanza, la quale non ha dimenticato che l’orrendo misfatto è rimasto finora e rimarrà forse un mistero. Il marchese di Roccaforte ebbe larga cultura, e fu un carattere, e di ciò gli va data speciale lode-in tempi in cui può ancora ripetersi che se l'Italia è fatta, bisogna fare gli Italiani. Pari del Regno nel 1848, scrisse contro la paria ereditaria. Restau- rati in Sicilia i Borboni, insofferente di servitù, ne andò in volontario esilio, e rivide la patria, quando era di nuovo libera. Nominato Sena- tore del Regno, accettò ma non diede il giuramento, nella speranza che la Camera Alta si fosse riformata a base elettorale. Visse gli ultimi anni di vita nella solitudine della sua villa di Ba- gheria, trovando solo conforto nei libri, e negli studiî teorico pratici ‘dell’agricoltura. Ultimo documento della sua carità di patria fu il lascito di gran parte dei suoi molti libri alla Società Siciliana per la storia patria, e l’altro anche più importante dei libri di agricoltura, all'Istituto Agrario. Isti- tuto fondato da Carlo Cottone di Castelnuovo, che si accresce ora e si nobilita con questa speciale biblioteca da altro patrizio, desideroso, quanto il Cottone, di vedere la sua Sicilia libera, prosperosa e fiorente nel- l’agricoltura. 16 RELAZIONE PER L'ANNO 1893 Un recentissimo lutto ci ha contristati. Il 16 marzo del 1894 è morto il prof. Eliodoro Lombardi. Mentre dettava la sua lezione all’Ateneo gli venne meno la parola, scolorossi in viso, e gli si rese inerte la per- sona. Non profferi più verbo; trasportato a casa potè solo con gli oc- chi favellare all’amata consorte, e dopo pochi giorni spirò. Poeta si accese in questi ideali: « Italia, Libertà, Pensiero e Croce ». La sua Musa si rivelò da prima nel verso improvviso, che scorreva fluente armonioso: i suoi versi infiammavano gli animi. Cantò le ultime ore di Francesco Riso. Annunziò l’arrivo di Gari- baldi in Sicilia: Riedi al brando, riprendi il cimiero Garibaldi, o Sicilia, è con te. L’eroico Carlo Pisacane era stato bello argomento di un suo poemetto : « fragrante giocondissimi olezzi, care e sentite melodie miste ad ire sdegnose» (1). La battaglia di Calatafimi, la prima che combattè in Si- cilia coi suoi mille il Garibaldi contro i soldati del Borbone, fu pur tema nobilissimo al nostro Socio. Voi ricordate i belli versi recitati alla Villa Giulia per | inaugura- zione del monumento al principe di Galati e gli altri stupendi su Cri- stofaro Colombo. Né fu solo il poeta della libertà, ma piacquesi anche d’ inneggiare all’ Umanità nel Prometeo, e alla redenzione delle plebi agricole nel canto della zappa. Poeta e insieme guerriero come Goffredo Mameli e Alessandro Poerio, pugnò al Volturno, e più tardi nel 1866 sui monti del Tirolo. I vuoti che il trasferimento di soci ad altre classi o la morte ha fatto, voi avete già coverto; nella prima coll’ illustre professore di geodesia A. Venturi che onora la Università e l'Accademia; nella seconda, con due insigni professori della facoltà di giurisprudenza, G. Ricca-Salerno e V. E. Orlando, l’uno insegnante economia politica, e 1’ altro diritto amministrativo e diritto costituzionale, e nella terza coi professori Bar- tolomeo Lagumina, Matteo Ardizzone e il dottore Giuseppe Lodi. Questi fornito di larga coltura; il primo valente orientalista archeologo e nu- mismatico, l’altro dotto nelle antiche e moderne favelle. La classe dei collaboratori che con la nomina degli attivi viene assot- (1) Parole di U. A. Amico. RELAZIONE PER L'ANNO 1893 17 tigliandosi, avete anche messo a pari, meno la seconda in cui molti vuoti tuttavia si notano. Entrarono testè novelli soci collaboratori, nella prima Antonino Borzi professore di Botanica e Direttore dell’Orto Botanico, e Francesco Ran- dacio insegnante anatomia nell’ Ateneo , ambi insigni nelle loro disci- pline; e nella classe di lettere e belle arti il professore Alfonso San- sone, e il professore Giuseppe Paolucci, noti l'uno e l’altro per notevoli lavori sulla storia di Sicilia e d’Italia. La classe degli onorari fu accresciuta del nome di Alfredo Capelli, valente matematico, già onore e lume della nostra Università, e ora di quella Napolitana. Turi TI ni III KS 55 IGI{S5{(SSINSSSIOIIISISISSIII (III RELAZIONE PER L'ANNO 1394 LETTA nel 17 Aprile 1895 uv = SommarIo : Timori per la soppressione della dotazione — Luogo per gli uffici della Ac- cademia — Elenco dei Soci dell’ Accademia del Buon Gusto del 1802 donato dalla Principessa di Torremuzza — Mezzobusto del padre Alessio Narbone — Letture : Re- lazione accademica ; Sui tremuoti del prof. Temistocle Zona ; Il lavoro della Civiltà per la pace in occasione di una recente opera di un Giurista tedesco del Canonico Salvatore Dibartolo; I nome di Ciullo d’ Alcamo del prof. Di Giovanni; Le Giu- daiche di Palermo e di Messina del prof. Lagumina; I parlamenti Siciliani al tempo di Federico II del prof. Giuseppe Paolucci — Commemorazioni: G. B. De Rossi; Vittorio Duruy; Padre Francesco Densa; Cesare Cantù; Isidoro Carini. Signori, Inaugurandosi l’anno novello, l’ Accademia nostra, rinsanguata di nuovi gagliardi Soci in quella delle classi che ne era più scema, ripiglia lena, e segue il suo cammino nel vasto campo delle scienze naturali, morali e delle discipline letterarie. In questo giorno è mio debito darvi comiezza dei lavori che durante l’anno passato furono letti da’ vostri Soci, e delle cose operate dal Magistrato accademico. Ineomincerò da queste : I.— La Giunta Comunale e poi la Commissione del bilancio soppres- sero la dotazione di L. 2000 dovuta alla R. Accademia. Però nè la Giunta nè la Commissione pensarono che quella assegna- zione è dote dell’Istituto; e chi dota è tenuto ad adempiere gli obblighi assunti. 20 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 Nel 1791 l’Accademia, già nata nel 1718 ed ospitata per lunghi anni nel palazzo di S. Flavia, ebbe onorato ricetto, previo l’ assentimento del Vicerè principe di Caramanico, nel palazzo Pretorio ; e le furono date onze sette annuali per il sostegno e mantenimento di essa Accademia. Il Vicerè approvò tale assegno (1). Due anni dopo, riconosciutasi insufficiente, la dotazione si accrebbe ad onze ventiquattro (2). > Per siffatta dotazione perpetua nelle leggi della Accademia il Senato ebbe il titolo di Mecenate o Patrono ed il Pretore di Capo o Promo- tore: titoli che sono tuttavia in vigore. Gli aumenti che seguirono ser- barono tuiii la natura della prima assegnazione. Nel 1826 fu elevata la dote ad onze 66 pari a L. 841,50. L’ Inten- dente nel 1837 proponeva elevarsi ad onze $0 nari a L. 1020, < attesi, co- m'’egli diceva, i bisogni dell’Accademia, la quale è in pieno vigore, e per eccitare vieppiù con mezzi stabili lo zelo dei componenti a progredire nelle loro letterarie adunanze, e per le spese della stampa degli Atti > (3). Il Decurionato non accolse allora la proposta, riserbandosi di fare a miglior tempo l'aumento. Dopo varie vicende la dote fu accresciuta a L. 1000 sotto la sinda- catura di Domenico Peranni, e nel 1883 raddoppiata mercè la efficace parola del Comm. Giacomo Armò. Nel tempo che l'Accademia ebbe solamente sostegno da’ privati, non (1) Eccellentissimo Signore, Informato io sulla rimosiranza di V. E. del primo febbrajo scorso, con la quale facen- domi presente di aver dovuto erogare onze dieci per una sol volta per le occorrenti spese, onde adunarsi nel Palazzo Senatorio l’ Accademia del Buon Gusto. e che biso- gnano alire onze setie annue per il sostegno, e mantenimento di essa Accademia, ha chiesto il permesso per una tale erogazione non compresa nella fatta riforma, le dico in risposta, che vengo ad accordario, con che tragga tanto le onze dieci per una sol volta, che le onze sette annuali dalle onze 100, annue di congrua, che tiene assegnate. Nostro Signore la feliciti come desidero. Palermo 12 marzo 1792. Eccmo Signore, Il Principe di Caramanico. (&) Il Vicerè can biglietto del 23 ottobre 1793 così scriveva al Senato di Palermo: Eccellentissimo Signore. Giacchè V. E., per quanto mi fa presente in rappresenianza delli 31 luglio passato, crede conveniente aumentarsi la insufficiente dotazione di oncie sette annuali che gode presentemente l'Accademia del Buon Gusto. alla somma di onze ventiquatiro, le dico in risposta che vengo ad accordarne l’aumento fino alle onze ventiquattro, con che però VE. V. cavi una tal somma annualmente dalla Congrua che tiene assegnata. Nostro Signore la feliciti come desidero. Il Principe di Caramanico. DIS (3) Stato diseusso del 1837. RELAZIONE PER L'ANNO 1894 21 potè pubblicare, dal 1718 al 1755, altro che un volume; poi dal 1755 al 1800, quando da poco otteneva onze ventiquattro annuali, un altro volume. Corsero 45 anni e non fuvvi alcuna pubblicazione di Atti. S’incominciò la seconda serie nel 1845; dieci anni dopo fu pubblicato il secondo volume, nel 1859 il terzo. Cresciuta la dotazione prima in L. 1000, e poi in L. 2000, la stampa dei volumi fu più frequente, e così dal 1874 al 1888 se ne pubblicaron sette, e si è poi dato principio alla terza Serie, di cui sono già usciti i primi due volumi ed il terzo è pronto. Appena il Magistrato Accademico venne in conoscenza che all’Acca- demia volevasi togliere la dotazione, si adunò per provvedere alla difesa dei diritti della medesima. Fu presentato ai Consiglieri Comunali un memoriale in cui fu dimostrato la natura dell’assegnazione ed insieme la utilità ed importanza dell’ Accademia che in questi ultimi anni è stata più fiorente che mai. Mi gode l’animo di significarvi che il Consiglio, inspirandosi a quei nobili sentimenti, che debbono albergare in chi siede nei Consigli di una grande Città, non permise che alla nostra R. Accademia nè al Circolo Giuridico nè alla Società per la Storia Patria fosse in minima parte ridotto il relativo assegno. II. — L'assessore del patrimonio, secondando la domanda nostra, pro- poneva alla Giunta di concedere all’ Accademia alcune stanze o celle dell'ex Convento di S. Nicolò, addette già all'ufficio d’igiene. La Giunta, con deliberazione del 15 febbraro, ha assentito che quelle stanze servissero pe’ nostri ufficii. Pur non potendo ripetere parva sed apta, riteniamo che il poco val meglio del nulla. In quelle stanze d’ ora in poi si adunerà il magistrato accademico, stabiliremo i nostri ufficii, porremo in ordine i nostri libri per renderli utili ai socii. Rendiamo qui pubbliche grazie all’egregio signor Sindaco e all’ onorevole Giunta, confidando che più in là il Municipio potrà assegnare altro più acconcio luogo, sì che si possa dire : Hic manebdì- mus optime. III. — Dalla cortesia della nobile signora Luisa Maria della Tremouille principessa di Torremuzza ci è stato donato l’ Elenco dei Soci della Accademia del Buon Gusto del 1802, nel quale leggesi 1802 l’anno della riforma. To fui il primo a far conoscere che al 1801 si rinnovarono le leggi dell’ Accademia e queste pubblicai in appendice al mio Discorso sulla origine, le vicende ed il rinnovamento dell’ Accademia nostra (1). (1) Le origini, le vicende e il rinnovamento dell’ Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti — Palermo, Tipografia Barravecchia, 1891, Appendice, v. VI. 29 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 Altre copie di quelle leggi furono poi trovate dal Bibliotecario Mon- signor Di Marzo fra le carte che il principe di Torremuzza donava alla Comunale, insieme con lettere d’illustri Soci intorno alle proposte riforme indirizzate al Conte Vincenzo Castelli di Torremuzza. Mancando nel nostro Archivio i documenti della vita oltresecolare del nostro Istituto, siamo lieti di andar raccattando ciò che presso i privati esiste e a quello si riferisce. IV. — La nostra Accademia si è fatta promotrice di una sottoscrizione per un mezzobusto al Padre Alessio Narbone, che fu Segretario Ge- nerale dell’Accademia dal 1851 al 1854. Ben conveniva che in Palermo si onorasse degnamente cotesto uomo, che versatissimo nelle lettere e nelle sacre scienze lasciò innumere- voli documenti di non comune erudizione. Già si è raccolta non poca somma, ma non bastevole ancora alla spesa. Il Comune nostro concorrerà ad onorare quel dottissimo , che illustrò colle sue opere la Sicilia; ed altri aiuti ci verranno dagli stu- diosi, si che entro l’anno novello potrà collocarsi il mezzobusto di Ales- sio Narbone, presso quello del Mongitore, nel gran tempio di San Do- menico, che accolte serba le glorie Siciliane. V.— Nell’ anno decorso la nostra Accademia fu operosa nel prin- cipio e nel fine; tacque nei mesi di giugno, luglio, agosto, vuoi pel ricadere la tornata di luglio il giorno della festa di Santa Rosalia, vuoi per impedimenti dei Soci. S’ebbero nei primi mesi le seguenti letture : la relazione del Segre- tario Generale — un discorso del presidente Su! nome di Ciullo d' Al- camo; Le Giudaiche di Palermo e di Messina descritte da Obadia di Ber- tinoro, del Canonico Lagumina; nei mesi di novembre e dicembre fu- rono recitati i seguenti discorsi: Note storiche sul parlamento di Foggia del 1240 e sulle pretese elezioni popolari di quel tempo nel reyno di Sicilia, del prof. Giuseppe Paolucci; Sui tremuoti del prof. Temistocle Zona; Sui progressi della civiltà a proposito di un libro tedesco, del Can. Salvatore: Di Bartolo. Il Segretario Generale discorse del Centenario di Antonio Veneziano celebratosi solennemente dall’ Accademia, ricordando le poche parole dette da lui e 1’ elegante discorso del prof. U. Antonio Amico: cennò le letture fatte Sulla flessione dell’ottone, del prof. M. Cantone : Laffaello Busacca, economista e uomo di Stato, del prof. Sampolo; sul Diritto pubblico di pace e di guerra sotto è Comuni, del prot. G. Salvioli; Della teorica del calore, del prof. G. Ricca Salerno; Delle danze Macabre nel Trentino del prof. Astorre Pellegrini. Ricordò poi a larghi tratti i trapassati Socii : RELAZIONE PER L'ANNO 1894 23 Girolamo Ardizzone, Giuseppe Meli, Salvatore Cusa, soci ordinari; del maestro P. Giuseppe Castronovo socio corrispondente, e i signori pro- fessore Arcangelo Scacchi, Alfonso De Candolle, Adolfo Frank, Giovanni Fraccia, Emanuele Notarbartolo, Lorenzo Cottù marchese di Roccaforte, soci onorari, ed Eliodoro Lombardi. Classe di Scienze Naturali e Matematiche. VI.— Un forte sconvolgimento di terra come sul finire del secolo passato, incominciato nel novembre u. s. e durato lunghe settimane e non ancora finito, ha funestato la Calabria e la nostra Messina, assai più terribile in quella che in questa. La parte ultima d’Italia è una di quelle che non hanno avuto la loro concozione intera, ma la van facendo; quindi è che nelle sue viscere intime regna tuttavia una gran discordia che fuori a noi si scopre con fiamme spaventose, con eruttamenti meravigliosi, con macigni lique- fatti, con terremoti, con maremoti, con aerimoti che danno a temere sia venuta la fine del mondo (1). La provincia di Reggio ha sofferto una di quelle terribili sventure che di rado toccano ai popoli. Gli abitanti esterrefatti lasciano le case e si adagiano all’aperto sotto le tende. Le case crollano, qualche paese cade in rovina; all’una scossa altra ne succede, e se oggi più non ne senti, domani altre più violente impaurano ed atterriscono i cittadini. Le madri stringonsi al seno i figliuoletti, dubitose se la terra non si apra per ingoiarle con essi. Il terrore e la desolazione sono daper- tutto. Le mani tese al cielo, prostrati ginocchioni, la gente invoca l’aiuto di Dio, a nulla valendo l’aiuto degli uomini. Il chiarissimo prof. Temistocle Zona, che reggendo il nostro Osser- vatorio studia con amore i fenomeni del cielo e della terra, invitato dal Comitato degli studenti tenne a scopo di beneficenza nella Grande Aula dell’Università una conferenza sui tremuoti. E qui, nell’ ultima adunanza del 1894, esposte le varie ipotesi intorno all’origine dello sco- timento delle terre, volle manifestare alcune sue idee (2). Egli ritiene che i terremoti possono avere origine da eruzioni di vul- cani subterrestri, imperocchè simili ai fenomeni che precedono gli erut- tamenti vulcanici son quelli che accompagnano i terremoti. (1) Borta. Storia d’Italia dal 1789 al 1814, 1. XLIX. (2) La memoria del prof. Zona è inserita in questo vol. IV degli Atti della nostra R. Accademia. DA RELAZIONE PER L'ANNO 1894 L’idea dell’illustre professore vi sarà meglio manifesia dalle parole stesse di lui. «Si rammentino ora le grandi caverne, si rammentino i fenomeni vul- canici con gli uragani vulcanici prodotti dalle eruzioni, si rammenti l'urto dato nel sottosuolo, urto che si trasmette all’epicentro in forma di sussulto; si rammentino i fenomeni elettrici, e sarà facile concludere che se esistono vulcani sub-aerei, se esistono vulcani sub-marini che danno il maremoto, possono esistere vulcani sub-terrestri le di cui esplo- sioni ed eruzioni daranno il terremoto. Ammessa l’ ipotesi che nelle grandi caverne prima dette esistano vulcani, sarà facile trovare la spie- gazione di tutti i fenomeni che accompagnano il terremoto ed anche dei terremoti microscopici. «Le esplosioni daranno l’urto sotto la volta della caverna, e questo urto si propagherà, come si è detto, dando origine al terremoto; anche nelle sotterranee eruzioni avremo l’uragano elettrico con tuoni e ful- mini; inoltre nel vulcano sub-terrestre avremo una gigantesca macchina d’Armstrong sulla quale funzionerà da conduttore la volta della caverna, di qui l’origine di tutti i fenomeni sismo-elettrici; i rumori senza scosse saranno prodotti da esplosioni che non arrivano a colpire la volta della caverna. «Con tutto ciò non voglio negare, come già dissi, che in varii luoghi scosse di minore importanza per estensione siano prodotte da frane, da fratture, o da scivolamenti di strati; certamente però questo non deve essere il caso del terremoto in Italia, nel Giappone e nell’Ame- rica centrale; come neppure può essere questo il caso del terremoto di Lisbona. Dato che il terremoto di Calabria p. e. sia prodotto da un vulcano sub-terrestre, non sarà difficile studiarlo, rendendo così un servizio all’umanità ed alla scienza». Classe di Scienze Morali e Politiche, VII. — Il lavoro della Civiltà in favore della pace in occasione di un’opera recente di un giurista tedesco fu il tema trattato dallo insigne canonico Salvatore Di Bartolo (1). L’opera è di Ludovico Huberti dottore della Università di Wuùrzburgo, ed ha per titolo: Studien zur Rechtsgeschichte des Gottesfrieden und Land- frieden, pubblicata in Ausbach nel 1892, primo volume di un vastissimo (1) La memoria del eanonico Salvatore Di Bartolo è pubblicata in questo vol. IV degli Atti della R. Accademia. RELAZIONE PER L'ANNO 1894 29 lavoro storico. Opera che lodata dal Bonghi nella Cultura e dal Lechaire nella ftevue historique, ebbe acerbe censure dallo illustre storico Weiland nello Zeztschrift der Savigny Stiftung. Il nostro chiarissimo Socio, avuto in mano il libro, vide il titolo dell’opera, la lesse e si invaghi del tema. Egli presentò un concetto preciso della civiltà, e scorrendo nelle sue parti il volume dell’ Hu- berti, svolse tutti gli elementi storici, che provano il lavoro della civiltà attraverso i secoli, per raggiungere lo scopo della pace. Gli elementi storici sono: il clero, il popolo, la dignità regale, il di- ritto pubblico. Quindi l’oratore rassegnò i molti luoghi dell’Huberti, ove dimostrò il clero promotore della pace; citò Concilii, Decretali, che inculcano la pace, parlò della Tregua di Dio, e mostrò come il Concilio mede- simo di Clermont, nel quale Urbano II benediva la prima Crociata contro i Musulmani, provvedesse anche alla pace. Il popolo vincendo con la istruzione la stessa barbarie, istituì nei secoli XI, XII e nei successivi le fratellànze per ottenere la pace. I sovrani pubblicarono ordinanze al medesimo scopo, eil è famoso un disegno di pace per tutta la Cristianità fermato tra Roberto dei Capeti ed Enrico II imperatore di Germania. Il diritto pubblico e il diritto internazionale s’informano benanco a concetti pacifici, riflettendo le idee già trasfuse nel popolo. Il primo volume dell’Huberti si occupa solamente del Medio Evo e della Francia, e solo basta a far riconoscere nello autore una grande valentia nelle discipline storiche, come a fare rispiccare il lavoro paziente e con- tinuo della Civiltà in favore della pace. Il fiostro socio reputò l’opera dell’Huberti assai importante, ritenendo ‘ che la conoscenza della medesima varrà di molto a nutrire e confortare le tendenze pacifiche, le quali ai giorni nostri si sono tanto largamente diffuse. i «I vo gridando pace, pace, pace » : fu il grido del poeta, e pace, pace, pace è il grido universale dei popoli civili. E dapertutto sorgono asso- ciazioni con lo scopo di cooperare in ogni guisa perchè cessino le guerre e le quistioni fra’ popoli si compongano per arbitrati. Siamo ancora ben lontani da questa nobile meta, toccar la quale non vorrei si possa dire «era follia sperar ». Certo, i casi di guerra sono al presente più radi; gli arbitrati hanno risoluto e risolveranno gravi contese internazionali. Ed è ciò grandis- simo beneficio della civiltà. Ma la guerra non è cessata. 26 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 A tacere del lontano Oriente, la vecchia Europa, pur profferendosi vaga di pace, è un campo di battaglia, assorbente ogni anno miliardi di franchi, e dall’un di all’altro poca favilla potrà secondare gran fiam- ma, e gli eserciti si combatteranno coi più recenti ed ingegnosi arnesi di distruzione. Ci vorrà ancor molto perchè nelle relazioni internazionali prevalga la giustizia; dopo un secolo dalla dichiarazione dei diritti dell’ uomo, ben converrebbe che si dichiarassero i diritti delle nazioni. Classe di lettere e belle Arti, VII.— Il famoso Contrasto della rosa fresca aulentissima è stato tante volte pubblicato ed illustrato; e fra gli editori ed illustratori cito, dei moderni, il Valeriani, il Nannucci, il Galvani, il Corazzini, il Bartoli, il d’ Ovidio, il Salvo-Cozzo, il Salvo di Pietragansili. Il contrasto è stato argomento di molte e talvolta acri polemiche, e di ricerche sulla città di Bari, sul Saladino, gli agostari, la defensa, e la Costituzione federiciana. Ci vien contesa la priorità di una Scuola poetica Siciliana: e quindi si nega che il Contrasto sia stato scritto in Sicilia. Non è qui luogo di entrare in questa sì ponderosa lite che non è l'argomento principale del lavoro letto dal nostro illustre presidente. Egli che ha sostenuto con tanto ardore e copia di dottrina essere quella canzone scritta in Sicilia, tolse a dimostrare che il nome di Ciullo è antico in Sicilia, sostenendosi da altri che apparve invece nel secolo XVII. Il nome del poeta del Contrasto è Ciullo o Ciulo o Cielo? La dub- biezza si è mantenuta, perchè si è ritenuto che il nome di Ciùlo o Ciullo non sia mai esistito innanzi al 1640 o 1660. A ciò ha risposto il Di Giovanni, con nuovi documenti, stimando meglio interrogare i fatti che allegare ipotesi vaghe ed oziose. Ha so- stenuto che il nome di Ciulo o Ciullo fu usato anticamente in Sicilia e che queste sono forme diminuitive di Vincenciullo, oggi ’Nciullo o ’Nciulo. Se il nome Ciulo s'incontra nei documenti del secolo XIII al XVII, prima che lo scrivessero l’Ubaldini, l’Allacci, l’Auria ed il Mongitore, non potrà sul serio sostenersi che il poeta del Contrasto non potesse chiamarsi Ciulo perchè questo nome non esisteva. Il Di Giovanni trova in uno strumento scritto in Greco nel 1196 vixoìdo 759 xo): in un diploma di Pietro d’ Aragona del 1283, Colo de Curtis: nella Descriptio feudorum (1296) Giullotta Chulu: in un diplo- RELAZIONE PER L'ANNO 1894 27 ma di re Ludovico (1345) Guglielmus Ciula; in uno strumento del 1445 Ciullo e Ciullum de Amico; in un libro del secolo XVI Filippo figlio di Pietro Ciullo ecc. e più giù Antonia la Ciulla e Filippa figlia di An- tonino Ciulla. Ora, egli dice, se il nome di Ciulo o Ciullo, e come nome proprio, e come cognome patronimico fu portato in Sicilia da molti cittadini dal secolo XIII al secolo XVIII, perchè non potè essere nome di un poeta Siciliano della fine del secolo XII e di un Siciliano nato in Alcamo che fin da quando scriveva Edrisi verso il 1150, era grossa borgata, e quan- do la visitava Ibn Giobair tra il 1182 e 1’ 85 era terra considerevole con mercati e moschee ? La dimostrazione è piena, e non potrà mettersi in forse che il nome di Ciullo è antichissimo tra noi e che l’autore del disputato Contrasto abbia potuto appellarsi Ciullo (1). IX.— Un importante argomento trattava il Lagumina: Ze Giudaiche di Palermo e di Messina (2). In Sicilia ebbero stanza gli Ebrei e di essi si occuparono nello scorso secolo il Di Giovanni e nel nostro il D.r Zunz, il La Lumia e lo Star- rabba, e più recentemente il rabbino Gildemann di Vienna; i fratelli Giuseppe e Bartolomeo Lagumina hanno intrapresa la pubblicazione del Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia. Il nostro illustre Socio ci dà notizia di un documento pubblicato in Germania più di 30 anni dietro e ch’è sfuggito ai nostri e al Perreau, traduttore del Zunz e al rabbino Gildemann. Il documento è una lettera di Obadia di Bertinoro che dimorò in Si- cilia oltre cinque mesi nel 1487, cinque anni prima della loro espulsione. Dà il Lagumina notizie bibliografiche del documento e alcuni cenni sulla vita di Obadia di Bertinoro o Obadia jarè. Questi predicò qui i sabati sopra argomenti morali e diè consigli perchè sì procurasse di essere reintegrati i Giudei nel diritto di eleg- gere i loro ufficiali, reintegrazione che finalmente ottennero. In quel documento si hanno dati sul numero deì Giudei in Palermo, sulle angherie alle quali andavano soggetti, sul luogo di loro abitazio- ne, sulle arti e mestieri da loro esercitati, su’ loro vizii e difetti, sulle costumanze civili e religiose; in esso ci si dà la descrizione della loro sinagoga. (1) Questo lavoro fu pubblicato nella Rassegna Nuzionale di Firenze, anno XVI, fa- scicolo 16, giugno 1894. (2) La memoria del canonico B. Lagumina leggesi in questo vol. IV degli Atti del- l'Accademia. 28 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 Le notizie forniteci da Obadia di Bartinoro intorno alla sinagoga com- piono quelle già sapute e tramandateci dal Mongitore in un mano- scritto esistente nella Comunale, e che egli avea cavato da un atto di vendita di detta sinagoga, atto che venne recentemente scoverto dallo stesso nostro Socio. X.— Il professore Paolucci ci intrattenne su di un argomento di sto- ria civile Siciliana (1). Egli riesamina la quistione se nei parlamenti Siciliani la parte po- polare sia entrata ai tempi di Federico II. Gregorio, Palmeri, Gaglia- ni hanno ritenuto che a’ tempi di Federico II entrassero per la prima volta i rappresentanti dei Comuni nei parlamenti; se non che Palmeri opina che partecipassero alla potestà di far leggi, e gli altri che essi vi entrassero per assistere alla promulgazione delle leggi. Michele Amari scriveva: «I parlamenti nacquero insieme colla monarchia, e se l'elemento po- polore mancovvi fino a’ principî del secolo XIII, ciò fu in parte per le medesime cagioni che in altre monarchie feudali, in parte perchè non picciol numero di borghesi della Sicilia fino a tutto il secolo XII restarono Musulmani (2). Vito La Mantia, ricordando l’opinione di Huillard Breholles, il quale ritenne che Federico II chiamò nel Colloquio i buoni uomini delle Città demaniali senza alcun disegno di farli partecipare all’autorità politica, rifletteva che «allora veniasi per lievi inizî a quelle riforme, che so- vente da brevi e oscuri cenni si argomentano, senza uno statuto che gli ordini politici in modo preciso regolasse (3). « Nè sotto la dinastia Sveva, scriveva Nicola Cirino, io trovo parla- menti regolati con leggi certe, nè tenuti con rappresentanza nazionale che la regia autorità correggesse o limitasse » (4). Nella nostra, come nelle altre monarchie feudali, il potere legislati- vo stette presso il sovrano, e sebbene non par dubbio che i buoni uomini chiamati nei nostri parlamenti ai tempi di Federico II, non siano stati eletti dal popolo, certo è che l’entrata di questi nunc, senza al- (1) La memoria del prof. Paolucci si pubblica in questo vol. IV degli Atti della nostra Accademia. (2) Introduzione al Saggio Storico della Costituzione del Regno di Sicilia di N. Pal- mieri, Palermo 1848. (3) Storia della legislazione. (4) Cirino NicoLa, V. Poesie e Prose, Saggio di discorsi sul diritto pubblico Siciliano. Palermo, tipografia Amenta. V. anche Capone, Discorso sopra la storia delle leggi patrie, Vol I, p. 222. RELAZIONE PER L'ANNO 1894 29 ‘cuna rappresentanza, ammessi nei parlamenti a rimirare il volto del principe e sentire le sue volontà; era già un passo, perchè veniva rico- nosciuta a canto a’ feudatari la importanza del popolo; era il primo avviamento alla vera rappresentanza. Il Paolucci, studiando le cronache ed i documenti antichi ed i novel- lamente pubblicati dal Winkermann, ha riesaminato la quistione, e fatto accurato esame delle lettere dell’ Imperatore, e di altre autorità, ha cavato questa inferenza che gli uomini non appartenenti alla gerarchia amministrativa, non ebbero nessuno diritto od autorità pubblica, e che se alcune volte furono chiamati a concorrere al buon andamento della amministrazione o della giustizia, non ebbero questo ufficio come rap- presentanti di Città, molto meno come eletti dal popolo, ma come per- sone giudicate da’ Bajuli, o altri funzionari, le più stimate e virtuose della loro terra. E quindi egli avvisa che nel parlamento di Melfi del 1240 nel quale doveva Federico II aggravare la colletta, intervennero i nunzî dei Comuni demaniali e feudali invitati dai giustizieri, ed anche i nunzî dei comuni laici ed ecclesiastici invitati per mezzo dei loro Signori. i Nuncius, secondo il Ficteri, presso i Tedeschi significa impiegato, presso gli Italiani giudice. Nunzi di vescovi, di abati e nobili, come anche di notai, giudici e funzionari inferiori, sono, nelle carte dei tempi Svevi, non altro che mes- saggeri. Dopo il Vespro i rappresentanti del popolo non si chiamarono solo nuntii, ma si appellarono, a significare meglio il nuovo concetto, Nuncii Syndaci, et procuratores. legitimi. Dopo un secolo da che scrisse il Gregorio, nuovi documenti si sono pubblicati intorno alla epoca Sveva, ed è ben conveniente che si ri- faccia lo esame delle istituzioni di quel tempo anche parzialmente. « Federico II, chiude così il Paolucci il suo lavoro, depresse è vero la aristocrazia feudale e l’ordine ecclesiastico, ma combattette con pari vigore la democrazia dei Comuni e non rappresentò in fondo che l’au- tocrazia e se stesso ». Commemorazione dei Soci trapassati, XI.— Ora incomincian le dolenti note del mio discorso; essendo mio debito di ragionare per cenni degli illustri Soci che ci sono mancati nell’anno 1894. Morirono della classe dei Soci onorarii G. B. De Rossi, Vittorio Duruy, Francesco Denza, Cesare Cantù. 0 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 (06) G. B. De Rossi, archeologo ed epigrafista romano, membro straniero dell’Istituto di Francia, fu il fondatore dell’ Archeologia cristiana. Nu- merose pubblicazioni lasciò nel Giornale Arcadia, negli Annali e nel Bollettino di corrispondenza Archeologica, nel Bollettino Municipale di Ro- ma, e nel Bollettino Archeologico di Napoli. Lavoro suo principale sono le Inscriptiones urbis Romae septimo seculo antiquiores : Roma sotterranea; Corpus universale inscriptionun latinarum, al quale collaborò con l’Henser e col Momsen. Dal 1863 fino alla morte, con mirabile ed indefessa attività, pubblicò il Bollettino di Archeologia cristiana. Sono ventotto volumi; e in esso è una parte di quanto questo gigantesco lavoratore ci ha lasciato di più prezioso. L'ultima sua grande opera è la splendida, ma oltre ogni dire faticosa edizione del Martyrologium Hieronumianum importantissimo per la storia dei Santi del tempo antico. G. B. De Rossi legato al Pontefice cui doveva obbedienza e ossequio, non potè appartenere al Nobile Consesso dei Lincei. Ma virtualmente era con esso, perchè, com’egli con faceta cortesia soleva dire, se non effettuò il passaggio, fu unicamente per la mancanza di un ponte che nè a lui nè a Soci di quel Consesso era dato costruire. I! nostro Go- verno gli diè sempre prova della sua alta osservanza, singolarmente mostrandosi ben volenteroso a continuare a spese dell’ erario la pub- blicazione dell’opera sua monumentale, iniziata dal governo pontificio (1). Vittorio Duruy, membro dell’Istituto, fu ministro sotto il secondo im- pero e fondò l’ insegnamento secondario speciale e quello delia Ecole des hautes études che ha poi dato risultati scientifici così eccellenti: pro- mosse l’insegnamento primario, le scuole per gli adulti. le scuole se- condarie per le donne. Scrittore di una bella serie di libri classici di storia, fondò la biblioteca di Storia universale distribuita in storie speciali che si pubblicano per le scuole. Tra’ suoi lavori si citano specialmente i seguenti: Geographie historique de la Republique romaine et de l' Empire (1838); Geo- graphie historique du moyen age(1839); Geographie historique de la France(1840). Ma l’ Histoire des Romaines et des peuples soumis à leur domination (1840-44) è l’opera maggiore che sia uscita dalla sua mente; pensata e condotta secondo che conveniva alla storia del più serio e del più politico di tutti i popoli, essa è vivificata, come notò il Monod, da quella lucidezza e vigorezza che nasce dalla pratica degli affari pubblici. L’Italia ebbe sempre amico il Duruy, e noi orgogliosi di averlo fra i nostri soci avemmo in dono da lui l’opera sua più bella. (1) Vedasi il Cenno su G. B. De Rossi negli AH? deî Lincei. RELAZIONE PER L'ANNO 1894 3 Il padre Francesco Denza è il terzo della Classe dei Sgci onorari che ci è venuto meno. Nato a Napoli il 7 giugno 1834, spirava in Roma il 14 dicembre 1894. Come M.r Isidoro Carini, pur essendo un vanto della religione, amò di vero amore la patria. Appartenne all’ordine dei Barnabiti. Discepolo del padre Secchi nella metereologia e nella astronomia, fondò l'Osservatorio di Moncalieri nel Collegio dei Barnabiti, e lo rese celebre per le osservazioni che vi fece, e per averlo reso centro di una rete di osservatori meteorologici che si erano in Italia instituiti. Nel settembre del 1890 chiamollo in Roma il Pontefice per ristabilire la Specola Vaticana. Le pubblicazioni importanti sulla fotografia del tielo pongono il Denza fia’ cultori più illuminati dell’astronomia. Egli levossi in fama di me- teorologo in Italia e fuori, e fra noi era unico. Non gli mancarono onori. Il governo francese lo promosse ufficiale della Legion d’onore per la sua carta fotografica del cielo. In tanta gloria il Denza si profferse sempre grandemente modesto; dote ch’è propria dei grandi scienziati. Il mio non breve discorso chiudevasi col ricordo dell’ illustre sto- rico Cesare Cantù, testè cessato di vivere, che l’ Accademia era lieta di annoverare frai suoi soci onorari. Operosissima fu la non breve vita di lui come lo attestano le innumerevoli opere letterarie, morali, sto- riche. Ma la sua rinomanza gli vien principalmente dalla Storia Uni- versale, cui con raro coraggio ancor giovane si accinse, e che condusse a termine, con abbondanza e varietà di dottrina, con libertà e ardire di giudizio, con limpidezza di stile, e ricca esposizione di fonti storiche. La sua opera ebbe in Italia dieci edizioni, e fu tradotta in quasi tutte le lingue di Europa. Egli appartenne a quell’eletta schiera, che con a capo il Gioberti, fondavano la loro idea nazionale su tutto un movi- mento politico religioso, e a questa idea rimase si tenacemente attac- cato, che non piegò punto al movimento onde l’Italia fu tratta alla unità. Con lui spegnevasi una delle più belle glorie italiane, e però Leone XIII e re Umberto sono stati solleciti della sua salute, e il primo aveva a lui nonagenario indirizzato aleuni bellissimi distici latini sulla morte. Mi- lano ne ha onorato la memoria con solenni funerali a spese pubbliche. Universale ne è stato in Italia il rimpianto, e lo rimpiangeranno nel mondo i cultori delle discipline storiche. Ho riaperto il necrologio. Un lutto recente ha funestato la cittadinanza palermitana, M.r Isi- 32 RELAZIONE PER L'ANNO 1894 — doro Carini, nostro Socio onorario, già per molti anni operoso socio or- dinario, ci è d’improvviso mancato. Palermo, la Sicilia, l’Italia piangono la immatura perdita dell’ ottimo sacerdote , dell’ insigne letterato , del dotto diplomatista. Insegnò paleografia e dottrina archivistica nel Grande Archivio di Palermo; lesse importanti memorie nella nostra Accademia, fondò col chiarissimo Barone Starrabba l’ Archivio Storico Siciliano. Mandato dal governo a Barcellona, trascrisse con grande studio e pazienza due registri De rebus regni Siciliae gestis, riguardanti il Vespro- Siciliano, ei documenti accompagnò di una notevolissima relazione, Gli archivi e le biblioteche di Spagna in rapporto alla Storia d’Italia. Roma dischiuse nuovi orizzonti al suo coltissimo ingegno, alla sua instancabile operosità. Leone XIII lo nominò sottoarchivista della Santa Sede e professore di paleografia e critica storica. In Roma il Carini insegnò , lesse in diverse Accademie notevoli lavori, e questi pub- blicò con altri di svariati argomenti, storici e diplomatici. Il pontefice lo tenne in quel conto che egli meritava, e lo elesse Prefetto e primo Custode della Biblioteca Vaticana, ufficio ed onore che a lui furono ac- cettissimi, perchè quella è la prima biblioteca del mondo, e perchè pre- decessori di lui furono Gaetano Marini, ed Angelo Maix. Ricevendo le chiavi di quella biblioteca esclamò essere quelle le chiavi del paradiso terrestre. Ah! non sapeva che sarebbero state quelle della sua tomba! Un furto di preziose miniature perpetravasi alla Vaticanea. Qual do- lore fu il suo, quando gli fu conto il sacrilego ladroneccio. Nè il rinvenimento di quei cimelî valse a lenire il suo profondo- rammarico. La sua salute andò lentamente svigorendo. Verso la sera. del 27 gennaro fu colto nel coro della Vaticana da repentino malore, e giacque cadavere nel cortile di S. Damaso entro la farmacia. Pare in- dubitato che precipua cagione della repentina sua morte furono i crepa- cuori sofferti per quel vandalico furto. Quanto tesoro di peregrina erudizione chiudesi con lui nel sepolcro! Quante preziose confidenze che doveano essere seme di future compo- sizioni andarono con lui seppellite! Se la morte non lo avesse così pre- maturamente rapito, a più durevoli monumenti avrebbe commesso il suo nome, a più alto loco sarebbe egli salito! Se degli illustri uomini che passano di questa terra i nomi non fi- gureranno più nel nostro Albo, la loro memoria non verrà meno per lungo volger d’ anni, e sarà per sempre bello il potersi dire da Soci di quest’ Accademia: quei sommi furono nostri Soci, e onorati da noi. ci ricambiarono d’onore. NNYVSNXNAKNKKAKNKKAKKAKNKNKAKAKKFFFFFEFEEF=SAFEECxFK:EFWF-.:_.Ò.Q(<<=«<: FREGATE RELAZIONE PER L'ANNO 1895 LETTA il 15 marzo 1896 SommaRrto : Introduzione. — Nuovi uffici nel Convento di S. Nicolò. — Il mezzobusto del Narbone. — Nuovo volume degli Atti — Sedute dell’Accademia. — Centenario del Tasso: Sampolo; Di Giovanni; Amico — Letture: Pellegrini; Cavallari; Salomone Marino — Commemorazioni : Coppola; Doderlein; Ragusa; Marotta; Ruggero Bonghi; Luigi Tommaso Belgrano; Bartelemy Saint’ Hilaire; Pasteur. Il novello anno accademico che oggi inauguriamo, è il 178° anniver- sario della fondazione dell’ Accademia e 105° dal suo stabilimento in questo Palazzo Pretorio. Come di solito, in questo discorso rimemoriamo le cose passate entro l’anno caduto; ricordo, che mentre attesta l’opera nostra, ci è sprone ed incitamento ad essere sempre operosi. La nostra Accademia, se ha in questo palazzo degna sede per le sue adunanze, non vi aveva più il suo ufficio, e averne uno acconcio era per noi presentissimo bisogno. Finalmente ci furono concedute dal Municipio nell’ex Convento di San Nicolò, ov’è l’archivio comunale e la Scuola tecnica Piazzi, le stanze già addette all’ufficio d’ Igiene. Sono quattro e piccole; in tre delle quali si sono collocate le scansie per riporvi le collezioni dei giornali italiani e stranieri. Sono questi tutti riordinati, e ne daremo presto il catalogo. Ma l’ufficio non è adeguato ai nostri bisogni, come altra volta io dicevo, pero non possiamo dire: hic manebimus optime. 34 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Dobbiamo, quindi, per adesso dimorare nell’ ex Convento di S. Ni- colò, senza lasciare la stanza della Biblioteca Comunale, ove serberemo i libri, che per ora resteranno divisi dai giornali. Quando avremo un luogo più ampio, riuniremo in unica libreria giornali e libri. È fortuna che tutta la preziosa nostra suppelettile sia posta in sale appartenenti all'Accademia: così non si correrà più pericolo che possa disperdersi come per lo innanzi, quando libri, giornali e registri an- davan ramingando da questa a quella casa de’ Segretari generali. Che resta a noi de’ documenti dell’ Accademia dal 1718 al 1832? Nulla, se ne togli l’elenco dei Soci del 1801, che ci fu donato dalla prin- cipessa di Torremuzza. Che dal 1832 infino ad anni recenti? Un solo registro, su cui sono notati i nomi dei Soci nominati nel 1832 e negli anni seguenti. Altri documenti preziosi trovansi nella Comunale fra le carte del Di Blasi e del Conte Castelli. Ora la corrispondenza è tutta ordinata, i registri delle sedute ben custoditi. Auguriamo che un giorno l'Accademia possa, oltre una dota- zione più conveniente, avere una sede in cui si collochino gli uffici e la importante libreria. Il voto d’ innalzare un mezzobusto al padre Alessio Narbone della C. di G. che fu illustre Segretario generale della nostra Accademia, proposto anni sono in questo nobile Consesso, è pressocchè recato in atto per le oblazioni dei privati e col concorso del Municipio. Fra non guari nel gran tempio di S. Domenico, ove accolte serbansi le glorie siciliane, sarà pur venerata la immagine del Narbone, bibliografo insi- gne e chiarissimo fra gli eruditi dell’età che fu sua. Nella relazione del 1893 dissi che la causa d’Andrea, dal cui successo sarebbe dipeso il nostro migliore avvenire, era in istato di esser decisa. Il tribunale di Napoli giudicò sul testamento del d'Andrea — ritenendo che questi non sia stato sano di mente quando lo scrisse. Il Municipio di Napoli appellò: appellammo anche noi. Non entrò quel Tribunale nello esame della capacità a ricevere della nostra Accademia. Le memorie che qui si leggono sono l’indice più bello della vita inte- riore del nostro Istituto; gli Atti in cui esse si pubblicano rendono ma- nifesta la nostra vita alle altre Accademie, al mondo scientifico. Splen- dido fu il periodo corso dal 1826 al 1831. Illustri uomini quali Giu- RELAZIONE PER L'ANNO 1895 35 seppe Crispi, Celidonio Errante, Luigi Garofalo, Giuseppe Bertini, Fi- lippo Foderà ed altri vi lessero importanti memorie. Ma quei lavori vennero tutti stampati a parte o nel Giornale di Scienze, Lettere ed Arti, non pubblicandosi allora gli Atti della Accademia. Splendido fu pure il periodo seguente al 1832, in cui l'Accademia si rinnovò, mu- tando il nome di Accademia del Buon Gusto in quello di Accademia di Scienze e Lettere; ma nel primo decennio non si stamparono nem- meno gli Atti, e le memorie lette, quali rimasero inedite, quali furono pubblicate nelle Effemeridi scientifiche e letterarie, o a parte, e alcune nel 1° volume della Nuova Serie. Il volume III della 8% Serie è già pubblicato. Così nel breve periodo dal 1891 al 1895 son venuti fuori tre volumi. Quanta differenza fra l’oggi e il tempo in cui si pubblicò la seconda serie, della quale i 10 volumi, per le vicende pubbliche e le speciali dell’Accademia, videro la luce nel lungo periodo di 45 anni. È da sperare—e non sarà lontano questo tempo — che l'Accademia nostra possa pubblicare ogni anno i suoi Atti, soddisfacendosi in questo modo il legittimo desiderio dei soci che i lavori qui letti vengano presto pubblicati. Le letture furono rare nell’anno decorso, vuoi per malattie, vuoi per altri impedimenti che vietarono a’ Soci di farne le promesse letture. Tacque quindi l’ Accademia, oltrechè nei soliti mesi di settembre e di ottobre, anche nei due ultimi di novembre e dicembre; non tacque, come è consueto, nel mese di maggio, perchè la seduta di aprile — per le feste dell’Orto Botanico—fu trasferita al prossimo mese. Le letture furono tutte della Classe di lettere e arti. Il Segretario generale leggeva in febbraro l’annuale relazione, ricor- dando i lavori dei Soci, e rimemorando i nomi degli illustri Soci tra- passati. La tornata più solenne fu quella del maggio in cui fu celebrato da noi il III centenario della morte di Torquato Tasso. Intervennero, oltre molti soci ordinari, collaboratori, onorari, i rap- presentanti del Prefetto e del Sindaco , il R. Provveditore, il Preside del Liceo « Vittorio Emanuele » molte signore e signorine. Il can. Gius. Montalbano recitò una iscrizione ed un epigramma latino. Il Segretario Generale Sampolo fe’ la storia dei centenari e degli an- niversari celebrati dalla Accademia dal 1872 finoggi, in onore di S. Tom- maso di Aquino, di Metastasio, di Bellini, di S. Francesco d’Assisi, di 36 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Cristoforo Colombo, di Antonio Veneziano, e ricordò il volume Note sto- riche siciliane del secolo NIV di S. V. Bozzo, pubblicate dall'Accademia Palermitana nel VI centenario del Vespro. Accennò poi alle relazioni ch’ebbe Torquato Tasso in Sicilia, e alla liberalità del Conte Giovanni III dei Ventimiglia marchese di Geraci verso il poeta, che gliene fu riconoscentissimo. Ricordò i poeti che in questo secolo cantarono di lui e di Eleonora; ricordò infine tutte le traduzioni latine che in Sicilia ha avuto la Gerusalemme liberata. Disse in quella adunanza il presidente Di Giovanni degli onori ren- duti al Tasso da’ suoi amici e contemporanei, fra’ quali ricordò quel Nicolò degli Oddi che fe’ stringere amicizia fra il poeta e il magnifico marchese di Geraci, il Cardinale Ludovico Torres, arcivescovo di Mon- reale, protettore del Tasso; l’arcivescovo di Palermo Diego Ajedo che gli fu pur cortese di favori. Ricordò la commedia g/' Intrighi di amore del Tasso, rappresentata nel Teatro dello Spasimo, 1’ Aminta musicata dal nostro Marotta e le traduzioni latine della Gerusalemme liberata ; e la opera intorno alla Bellezza del poema del Paruta, del quale lesse in- fine alcuni distici latini in morte del grande Poeta. Il prof. U. A. Amico ragionò degnamente del Tasso, con quella no- bile forma ch’egli sa con bel magistero adoperare. « L’opera sua—egli disse — è un poema e la sua vita tutta una poesia; e nascita, patria, genio, sventure, gloria e morte fanno di lui la misteriosa apparenza di un grande poeta». Ed egli ne ricordò la nascita nella deliziosa Sor- rento che sigillò nell’anima di lui un’ impronta incancellabile, soave- mente gentile e fervidamente passionata. E indagò le ragioni dell’arte che guidarono il Tasso nelle opere sue. E lui ci ritrasse a 18 anni entrare col suo Rinaldo in questo mondo, ricco di studi, pieno il cuore e la mente di verginale alterezza. E lo seguì nella Corte di Ferrara, ove dapprima gli arride la lietezza di felici istanti, e poi lo assalgono il disinganno, i dolori, le persecuzioni. In Ferrara il Tasso si mette con lena vigorosa al gran poema La Ge- rusalemme liberata, il tema più degno per un poeta, compreso, come lui, della santità del soggetto. L’ oratore rassegna le belle figure del Gof- fredo, di Rinaido, di Tancredi, Solimano e degli altri migliori, di Ar- mida, Clorinda ed Erminia; e ne rivela le bellezze. E ricorda la pri- gione di S. Anna ove il Tasso giacque sette anni, e poi il convento di S. Onofrio ov’egli erasi recato a trovar pace, e vi ebbe la morte. «Roma preparava al poeta la corona. Il trionfo preparato all’ arte non fu che trionfo della morte. La corona, per tanto tempo sospesa sulla fronte del divino poeta, fu, a suo onore, deposta sul gelido marmo della sepoltura ». RELAZIONE PER L'ANNO 1895 37 Chiudevano la solenne adunanza due belle poesie di valenti giovani poetesse, la signorina Rosalia Majorca Mortillaro e la signorina Albina Buonpensiere de Baggis. La prima nelle sue ben tornite ottave ricordò l’avventurosa vita del poeta e le opere del suo genio e le invidie patite e la prigione, e la pace da lui cercata in Sant'Onofrio. E qui esclama: O aiire devote del convento O annosa quercia e supplicati altari, Fra le vostre ombre l'animo sgomento Oblio cercava a mille casi amari... Ma i erudi ceppi e il primo suo contento, La gloria infranta, e tanti aspetti cari, Ed Erminia e Tancredi or par che veggia Fra insonni veglie, e palpita e vaneggia. L’ altra nella sua bella ode, ricordata l’ ultima ottava della Gerusa- lemme, soggiunge : Chiudo il volume e penso, e le si parano alla mente le cose lette in quello, e poi ricorda l’ età prima del poeta, la pace della casa materna, la nativa Sorrento, l’amor della sorella, i suoi sogni, i disinganni, e la frondosa quercia, lo spi- rito messaggiero, e chiude con questi versi : Povero cuore uman; forse pur sempre Un altro cor chiedevi Che vivesse di te; e dimmi, ormai Tu sei lieto dei cuori Di fanciulle pensose Che ti donaro i primi casti amori ! Così degnamente la nostra Accademia onorava il cantore del Goffredo e dell’Aminta. (1) Il prof. Di Giovanni che ha illustrato ed illustra con sì grande amore le cose siciliane, e mandò fuori la bella Topografia di Palermo, presen- tava all’ Accademia una lettera inedita di Paolo Caggio al Pretore di Palermo per l'Accademia letteraria. In quella occasione ci intertenne eruditamente, come egli sa fare, intorno a quel letterato , e all’ altro, Pietro Corsetto, fondatori 1’ uno (1) Vedi in questo volume Pel III Centenario della morte di Torquato Tasso. Adu- nanza del 19 maggio, 1895. 38 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 dell’Accademia dei Solitari, la prima che sorgesse in Sicilia dopo Fe- derico II, e il secondo promovitore dell’altra dei Riaccesi. Paolo Caggio, come è saputo, letterato insigne nel secolo XVI ebbe nominanza non solo fra noi, ma anche in Italia. Trattò in prosa del governo di famiglia, lo stesso tema sul quale aveva scritto con eleganza di stile Leon Battista Alberti, e fece alcuni ragionamenti per vedere se la vita cittadinesca sia più felice del viver solitario fuori la città e nelle ville. I suoi versi leggonsi tra le rime di diversi eccellenti autori rac- colti dal Ruscelli, e nella scelta di rime fatta dal Gioletto, e nel Tempio fabbricato alla signora D.* Giovanna Aragona da iuttii più gentili spi- riti ed in tutte le principali lingue del mondo. Fu Segretario e Can- celliere del Senato di Palermo. Rifulse nella Accademia dei Solitari che fu favoreggiata dal vicerè De Vega, ma ebbe breve durata. Il Caggio intendendo ridarle nuova vita scrisse al Conte di Vicari, Vincenzo Bosco, acciò ne iniziasse e pro- movesse il ristauramento. La lettera che al Pretore egli presentò, posseduta già dal Mongitore, esiste ora nella Comunale. Questa lettera nella quale il Caggio ragiona della grande importanza delle Accademie letterarie, il nostro Presidente comunicava a noi. E accennò poi all'Accademia degli Accesi che, rinnovatasi nel 1622, tolse il nome di Accademia dei Riaccesi, la quale tanta fama procac- ciossi per il nome e i lavori dei Soci che il Consiglio Civico ordinava la spesa di onze 250 per la fabbrica di una Casa acconcia alle adunanze deila medesima. Ma la Casa non fu eretta e la rinomata Accademia spe- gnevasi nel 1682. Soria nel secolo XVIII la nostra, citenne nel 1791 in questo nobile palazzo rifugio ed ostello. Il socio Pellegrini, il cui trasferimento in Firenze noi rimpiangiamo perchè egli era dei più attivi fra’ nostri soci, lesse una sua Nota sulle piramidette , sui coniî, e sui dischi sepolcrali e votivi. Descrisse questi og- getti colle loro iscrizioni, e coi loro disegni od emblemi, ora graffiti, ora incavati, ora impressi con uno stampo: e mostra come le une e gli altri non siano ancora sufficienti a chiarirne l’uso e lo scopo. Espone e confuta sobriamente le varie ipotesi degli eruditi: quella molto diffusa che li vuole pesi da tessitore o da pescatore; o l’altra di chi li crede riproduzioni di paste e di focacce d’offerta: di chi ci vede pesi per derrate: e finalmente di chi li suppone oggetti della vita co- mune, che acquistavano secondo l’ intenzione un significato funebre, RELAZIONE PER L'ANNO 1895 39 quando si collocavano nel sepolero: o avevano valore votivo, quando si appendevano alle pareti d’un tempio. Il Pellegrini s’accosta in parte a quest’ultima opinione, che nondi- meno non scioglie secondo lui ogni dubbiezza. Crede si debba ricercare il valore simbolico di questi oggetti nella loro forma, non bastando fin qui a diradare le tenebre le iscrizioni loro e gli emblemi. Il disco , il cono, la piramide tronca fanno pensare all’ Oriente, e precisamente al culto solare dell’ Egitto, della Fenicia e della Persia. Tocca breve- mente del concetto simbolico della piramide, secondo il Naville, il Pleyte, il Brugsch, il de Rougé e lo Schiaparelli ; mostra come il simbolo so- lare potè intrecciarsi colla idea del sepolcro, e rammentando il culto divino prestato ai grandi sepolcri dei Faraoni, accenna all’origine degli amuleti di forma piramidale che si trovano tra le fascie delle mummie. Finalmente, toccando della analogia fra le piramidi e i coni funebri della necropoli tebana, conclude col creder molto probabile che l'Egitto sia la vera patria dei nostri fittili misteriosi. Può darsi che nel primo lor passaggio in Europa abbiamo serbato il carattere solare e funebre, ma col volger dei secoli rimasero solo simboli religiosi o sacri, allu- denti al concetto della morte e della vita, 4vvss a compimento, alla luce eterna che splende oltre il sepolcro. Cosi poterono essere a un tempo: amuleti, oggetti di venerazione o di voto. Il venerando prof. Cavallari, che, nella sua verde vecchiezza, con- serva il vigore della prima gioventù e lavora con gagliarda lena ad importanti lavori, lesse un brano della sua opera: « Le città e è monu- menti preellenici della Sicilia » opera che rivela la antichissima civiltà dell’isola nostra, quando ancora non vi si erano fermate le greche colonie. In quella lettura dimostra che il gran fiume Salso proviene bensi dalle Madonie, ma da un punto ben diverso da quello ove sorge l’Imera settentrionale, e quindi impropriamente fu ed è chiamato Imera me- ridionale. Il Cavallari nel descrivere e far conoscere anche per mezzo di di- versi e molteplici tipi di tombe della regione detta Sicania, situata ad Occidente del Salso, dimostrò che questo fiume divide la Sicilia in due grandi regioni, ed era il confine fra i Sicani e i Sicoli dopo la inva- sione di quest'ultimi nella Sicilia. E ciò ei veniva dimostrando non solo topograficamente, ma anche basandosi sulla diversità dei monumenti di queste due regioni, da lui studiati, misurati e disegnati in un periodo di circa mezzo secolo. Il Cavallari presentava ancora la pianta topografica della regione Sa- 40 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 bucina, situata fra Caltanissetta ed il ponte Capodarso, accompagnata da due tavole che contengono i disegni, fatti sul vero, delle numerose tombe che contornano, dal lato meridionale, i confini di questa regione, nella quale, secondo lui, doveva sorgere la città sicana di nome Nissa o Nisa. Enumerò inoltre i diversi gruppi delle tombe sicane che s’incontrano presso Ravanusa e Campobello di Licata; quelli delle diverse regioni agrigentine , comprese le tombe di Makara e di Heraclea Minoa sco- perte dal Prof. Caruselli; nonchè quelle che si rinvengono presso Santa Ninfa e Partanna, situate quasi al confine di quella parte della Sicania limitrofa alle regioni occupate dagli Elimi (1). È questa opera un ottimo contributo agli studi della Sicilia antica. L’operoso prof. Salamone Marino, valente cultore degli studi folklo- ristici, tenne nell’agosto una conferenza Sulle streghe e gli stregoni in Si- cilia dal secolo XVI, a’ dì nostri. Antiche sono le stregonerie; e siffatte credenze, come scrive il Cantù, si conservarono a traverso al medio evo, sicchè ne son piene le leg- gende nelle quali si confondono il misticismo e la empietà, il tremendo e il grottesco; repulsate da’ legislatori e da’ dottori, ma serbate tena- cemente dal volgo, finchè vennero a mescolarsi con quella fungaia delle scienze occulte; i settentrionali vi riunirono il tributo delle loro saghe e valchirie e oldi e gnomi e spiriti elementari; gli Arabi le loro fate. Nel cinquecento si estese la fede nelle stregheria. In un libro De Strigéis, uno zelante inquisitore, Fra Bernardo Rategno, mostrò non solo avere morale certezza di loro esistenza, ma scandalo di chi li metta in dubbio. E qui consentite che io vi rilegga un sonetto di Francesco Sampolo, mio padre, sulla magia, con cui il chiarissimo prof. Salomone Marino dava principio alla conferenza sua: « Donni di fora, striguni, magari, Animulicchi, pignateddi e ciuri, Greci di lu Livanti e fattucchiari, Spinguli, agugli, pizzuddi e licuri; ’Nguentu pri fari l’omu trasfurmari, Ervi ‘incantati pri attizzari amuri, Trizzi di Gonna pri singaliari, Virghi e libbrazza pri li truvaturi; (1) L’opera è già condotta a termine e sarà presto pubblicata. RELAZIONE PER L'ANNO 1895 4] Foru un tempu duttrina univirsali, Tantu chi dubbitari era delittu Riservatu add’infami tribunali; Ora però putemu o ’nvuci o in serittu Diri cu libirtati naturali Ca ’un ci cridemu, nè ci avemu crittu. Il professor Salomone Marino facendo tesoro di varie notizie da lui raccolte in libri e manoscritti, processi criminali, sentenze dal San- t’ Uffizio ecc. fece rapidamente la storia delle superstiziose credenze sulla stregoneria nell’ Isola, ricordò i nomi e le gesta delle streghe e maliardi e degli stregoni più celebri, tra’ quali compariscono molti preti e frati, come tra le prime compariscono assai rare le. vecchie e abbondano le giovani, di vita libertina la maggior parte. Parlò delle formole adoperate per gli stregonecci e degli utensili necessarii, come anche dello evidente fine della stregoneria ch’è quello di seroccar de- naro a’ gonzi. Notò poi che agli stregoni ricorrevano non solo gli igno- ranti, ma persone di alto grado sociale e perfino il magistrato muni- cipale di Palermo: Parlò delle pene, a cui streghe, maliarde, e stregoni eran condan- nati, quando si potean processare, e con la scorta di documenti fe’ co- noscere com’ eran fatte e arredate le carceri di questi disgraziati che o il bisogno o il perverso animo, o la nevrosi spingeva e spinge, anche a’ di nostri, ad un mestiero immorale e dannato, che perpetua ubbie ed errori presso il popolo. Si doveva dall'Accademia celebrare il Centenario di Nicolò Spedalieri, insigne polemista, autore del trattato dei Diritti dell’uomo. Ma per so- praggiunto impedimento all’egregio Socio prof. Luigi Natoli che doveva tesserne le lodi, si fu costretti a rimandare ad altra seduta quella com- memorazione. Col mesto ricordo degli uomini illustri, che l’anno 1895 ci ha rapito, chiuderò il mio discorso. Dei soci attivi ne mancarono il prof. Coppola, il prof. Doderlein; dei corrispondenti il Can. Marotta, e dei corrispondenti esteri il Bar- thelemy Saint Hilaire ; degli onorari Mons. Ragusa, Ruggero Bonghi, Luigi Tommaso Belgrano e Luigi Pasteur. Giuseppe Coppola fu letterato, cultore delle matematiche, medico, e professò con molto plauso nella nostra Università prima aritmetica e algebra e poi patologia generale. 6 42 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Ebbe animo dolcissimo, aborri dalle desolanti dottrine distruggitrici d’ogni umano consorzio che il secolo accarezza, serbò inalterata nell’ani- mo la fede in cui era cresciuto. Pietro Doderlein, nato a Ragusa nella Dalmazia fu professore di storia naturale nello Ateneo di Padova, e dal 1862 dettò nella nostra Università zoologia ed anatomia comparata. È suo vanto aver fondato il Museo in cui son raccolti in bell’ordine gli uccelli, i pesci, gli animali della Sicilia, ed in varie pregevoli opere ne dié la descrizione. Il Doderlein, come ben disse il suo successore, visse tutta la vita in intimo rapporto con la natura, in contatto con la-terra, col mare, con tutto ciò che vive, ma non osò chiedere alla natura alcuno dei misteri ch’essa gelosamente custodisce. Benedetto Marotta, di cui disse in Monreale le lodi un altro valente nostro socio, il Can. Polizzi, era eccellente latinista, allievo di quella Scuola Morrealese che dal Murena bha serbato nobili non interrotte tra- dizioni. Qui egli leggeva quelle sentite poesie latine in cui versava tutto il suo cuore espansivo e passionato: qui vestite delle più elette forme di Virgilio e di Catullo esprimeva cose nuove ed idee non comuni, e qui ebbe plauso e ammirazione. I versi pel Centenario del Colombo voi ben ricordate. Nell'anno accademico 1879-80, due anni innanzi il ricadere del VI Centenario del Vespro, egli lesse : Vesperarum Siciliensium poetica comen- tatio, la cui chiusa è ben degna di essere qui ricordata, oggi che tra Francia e Italia non è ancora— e auguriamo sia presto — quella con- cordia che le due grandi nazioni latine dovrebbe atfratellare tanto negli interessi economici che nei politici : < Musa o duarum disjice gentium Iras repostas, foedus et integra! Quas stirpe concretas eadem Stringat amor, societque virtus. Casus nefastos, saevaque funera Nune corde lapsa oblivio contegit; Utramque sic gentem potenter Nexus amicitiae revincit ». Monsignor Francesco Ragusa, dotto in filosofia, in istoria ecclesiastica, RELAZIONE PER L'ANNO 1895 43 in teologia insegnò la dottrina teologica nel Seminario Arcivescovile ; applicossi anche alle matematiche. Vescovo di Trapani fu esempio di carità e di senno pratico nel g0- verno di quella diocesi. Lesse nella nostra Accademia un notevole lavoro su Darwin e la Scuola evoluzionista. Ruggiero Bonghi, letterato, pubblicista, deputato, e antico ministro di pubblica istruzione, nacque in Napoli nel marzo del 1828, insegnò filo- sofia a Napoli nel 1860, passò alla letteratura, greca nel 1861; a Torino poi, a Firenze nel 1865; alla storia antica a Milano nel 1867 e tenne lo stesso insegnamento in Roma dopo il 1S71. Tradusse Aristotele e Platone; fondò giornali come La Stampa, di To- rino, I! Nazionale di Napoli; diresse La Perseveranza, L’ Unità Nazionale, La Cultura, scrisse innumerevoli lavori e articoli per li giornali ita- liani e stranieri. Resse la pubblica istruzione nel 1874; fu presidente del ‘Congresso della Pace e dell’ Associazione della Stampa ; fondatore dei Collegi d’Anagni e di Assisi. Ebbe fama ben meritata di ingegno versatilissimo ad ogni disciplina e scienza, di arguto scrittore e parlatore. La operosità del Bonghi fu meravigliosa. Assisteva alla Camera dei deputati, prendeva parte ad importanti discussioni, e nel medesimo tempo scriveva notevoli articoli su pei giornali, e mandava fuori lavori sempre pregiati sulle quistioni del più vivo interesse in Italia ed in Europa; e non tralasciava di far rivivere nella sua traduzione il vecchio Pla- tone accompagnandolo mano mano di un commento originale. Tanta operosità diffondentesi su per varie materie, mai non lo sopraf- fece; ma nocque alle lettere, impedendogii di rivolgere la sua larga . mente, nutrita di severi studi, ad un’opera sola o a parecchie. E la storia di Roma doveva essere il degno subbietto de’ suoi studi; ma questa che fu da lui promessa, e per la quale ebbe larghi incoraggia- menti, è rimasta alle fonti della storia romana e alle origini della Città. Pure nella letteratura del secolo nostro avrà il Bonghi cospicua parte, come autore dell’opera, Perchè la letteratura italiana non sia popo- lare in Italia; come traduttore di Platone, come scrittore ed uno de’ più eruditi dell’età sua. Come uomo politico, stese la bella relazione e il disegno di legge sulle guarentigie della S. Sede, legge, che rendendo indipendente la spada dal pastorale, mira a risolvere l’ardua difficilissima quistione dei rap- porti dello Stato con la Chiesa. 44 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Non minor grido che le opere letterarie, procaccerà al Bonghi la fon- dazione dei collegi d’Anagni e di Assisi, a’ quali egli con grande amore e tenacità di propositi dedicò gli ultimi anni della sua operosissima vita. Luigi Tommaso Belgrano è l’ultimo dei soci italiani defunti, essendo morto il 26 dicembre 1895. Genovese insegnò nel patrio Ateneo storia antica e moderna ; resse la biblioteca Civica; fu Segretario Generale della Società Ligure di storia patria; fondò e diresse con A. Neri il Giornale Ligustico di archeologia, storia e belle arti. Le sue non poche opere sono pubblicate negli Atti della Società di storia patria. Illustrò molti punti della storia genovese; e ricordiamo specialmente Della vita dei Genovesi — Codice dei privilegi di Cristofaro Colombo. Pazienza, cura nelle ricerche, acume nelle deduzioni, felice divina- zione, sono i pregi che lo raccomandano agli studiosi. Abbiamo perduto due illustri soci stranieri: Barthelemy Sant’ Hilaire e Luigi Pasteur, l’uno nostro socio corrispondente fin dal 1879, l’altro onorario dal 1592. Giulio Barthelemy Sant’Hilaire, nato nel 1805, fu giornalista, profes- sore di filosofia greca e latina nel Collegio di Francia; fu eletto nel 1839 membro dell’Istituto. Fe’ studi preziosi sull’India e vi consacrò molti lavori, tra i quali il Saggio sopra i Vedas, sopra Buddha e la sua religione. Pubblicò un trattato sulla logica di Aristotile, lasciò, immortale lavoro, la versione -di tutte le opere di quel grande di cui fu detto: — Aristotele — ingi- nocchiatevi — fu mente divina. La nostra Accademia nominava suo socio onorario Luigi Pasteur nel 1892 nel quale anno alla Sorbona celebravasi il giubileo di lui. Dopo appena tre anni è morto. Il metodo sperimentale, egli diceva nel suo discorso di entrata nella Accademia, dev'essere sgombro da ogni speculazione metafisica, e riven- dicando alla sua coscienza il diritto di affermare altamente le sue con- vinzioni spiritualistiche e religiose, reclamava energicamente per la scienza ogni prerogativa della libertà. Difatti la libera curiosità della sua mente indagatrice, stimolata da una potenza inventrice e secondata da una scrupolosa induzione delle realtà obbiettive, ha condotto il Pa- steur a traverso la lunga e splendida evoluzione dei suoi lavori scien- tifici come diceva nei solenni funerali di lui il ministro Poinearéè (1). (1) Vedi il Discours de M. Poincaré ministre de l’instruetion publique nel Journal RELAZIONE PER L'ANNO 1895 45 In una affermazione di un mineralogista tedesco egli presente un er- rore probabile, non sa ammettere che data la identità di forme cristal- line, possa esservi dissimiglianza di azioni ottiche; interroga i gruppi atomici, imprende i suoi studi sulla dissimetria molecolare; e sulla so- glia della sua vita di lavoro e di pensiero (1884) si compiono le prime scoverte. Intravede la influenza verosimile della dissimetria su’ fatti fisiologici, disegnandosi a’ suoi occhi l’ignoto di vasti problemi, e vede il gran fenomeno della fermentazione restituire alla aria, al sole, al- l’acqua le sostanze momentaneamente tolte da esseri organizzati, ren- dere alla vita ciò che vien dalla vita, e vede una forza operosa affa- ticare tutte cose di moto in moto e travestirle il tempo (1857). La stessa morte nel mistero dell’ infinito tiene una riserva di forze e di speranze. Viene quindi fuori agli occhi del Pasteur il mondo degli in- finitamente piccoli e appaiono esseri microscopici, vibrioni, batteri, microbi che sono come gli operai segreti ed i testimoni invisibili dei fenomeni più profondi della natura. Questo nuovo mondo, precorrendo a Koch e al Pasteur aveva già rivelato il nostro illustre Filippo Pa- cini come hanno ‘attestato il Baumgarten e più ancora il Moleschot. I! Pasteur coltiva questi microbi, li modifica a suo talento, e adatta quelli del vino (1863), delle malattie dei bachi da seta (1865), della birra (1871) agli ordini della scienza. Dimostra che il male dei bachi di seta era contagioso, e che si propaga dai microbi, sia colla foglia di gelso, sia nel pulviscolo atmosferico , sia per contatto. E provvede con la sua cura a salvare una fra le più importanti produzioni agricole, e ottiene un premio di fiorini 10,000 dal Ministro Austro-Ungarico d’agri- coltura. E va più in là; nel 1862 vuol sapere donde provengano quei microbi e combattuto l’errore della generazione spontanea, scruta col suo metodo insuperabile le vie per dove sopra impercettibili grani di polve si sono insinuati i germi sottili creatori dei microbi. E cammina, cammina perseguendo le sue indagini sul corpo umano, e scopre che i virus sono esseri viventi. Avviene quindi un rivolgimento nella igiene e nella medicina. E va ancora più avanti; bisogna vincere il virus come aveva vinto i fermenti. Col suo genio infaticabile determina, isola, governa cia- scuno di questi parassiti. des economistes, 15 oct. 1895. Di questo discorso dell’illustre matematico buona parte è stata da me riprodotta. 46 RELAZIONE PER L'ANNO 1895 Eleva a teoria la vaccinazione e ne moltiplica le applicazioni. Il carbonchio, il cholera dei gallinacei, la rabbia segnano le gloriose tappe d’una delle più belle e meglio condotte scoverte della scienza. Al- l’istituto Pasteur sorto in Parigi corrono fin dai più lontani paesi per trovar rimedio alle mortali punture dei cani rabbiosi. I discepoli del Pasteur, proseguendo amorosamente le orme del srande maestro, sono riusciti a vincere la difterite. La scienza ha nei suoi libri adamantini segnato il nome di Luigi Pa- steur; l’umanità darà a lui un culto unanime, imperituro, ponendo il suo nome accanto a quello dei suoi più grandi benefattori (1). ISO? (1) Eretto a spese della famiglia nell'Istituto Pasteur sorge un magnifico monumento alla memoria del grande uomo. È adorno di bei mosaici e di scelti marmi , il sarco- fago è di un sol masso di porfido di verde cupo. La cripta nel cui centro sta il sar- cofago, è formata da quattro archi che sorreggono la cupola e recano scritte sul marmo le date delle scoperte dell’illustre uomo: 1848 dissimmetria molecolare, 1857 fermenta- zione, 1862 generazioni dette spontanee, 1863 studi sul vino, 1865 malattie sui bachi da seta, 1871 studi sulla birra, 1877 malattie virulente, 1880 il w2rus del vaccino, 1885 pro- filassi della rabbia. Dietro il sarcofago è una cappella in forma di abside con un altare e con balaustra di marmo bianco. Fra le figure rappresentate dai mosaici scorgonsi quelle degli angeli della fede, della speranza, della carità e della scienza, la mistica colomba che discende dal cielo e le simboliche alfa ed omega. (V. Civiltà Cattolica, 3 luglio 1897). PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO A Adunanza del rg Maggio 1895 e e ee e e eee COLLLLLVLELULSIELERIERETEFIRRELETREEEELOKO ELE TELI LLLERRERRETRERERR RIDERE RRATIAIIALEREVIKALOLK{LKLLKLKRERERKDERERERELREREETERELE RICE TOO COTE LELOROLOLEBRK LOSS COLLODOTETERKRERELRREREE RES EE DE EvERERRRE Ta TERZO CENTENARIO DELLA MORTE BI FOROUA Te 550 Cm = = ann La nostra R. Accademia ha tenuto una solenne adunanza per cele- brare il terzo Centenario della morte di Torquato Tasso. Vi sono intervenuti, oltre molti soci ordinari, collaboratori e onorari; il rappresentante il Prefetto; il Cav. A. Pepoli, rappresentante il Sin- daco; il sac. Silvio Iannuzzi, R. Provveditore agli studii ; il Cav. Ar- mandi, Preside del R. Liceo Vitt. Em.; il prof. Pietro Cavazza, Ispettore delle scuole secondarie; la signora E. Bordiga, Direttrice dell’Educatorio Maria Adelaide con alcune allieve, e molte signore e signorine. Il Can. Prof. Giuseppe Montalbano recita una iscrizione e due distici latini. Indi il Segretario Generale legge poche parole sui centenari ce- lebrati dalla nostra Accademia e sulla convenienza di commemorare in Palermo il Tasso, ricordando la relazione di lui col Marchese di Geraci e il culto che egli ha avuto sempre in Sicilia, e le traduzioni latine Che quivi si son fatte della Gerusalemme Liberata. Poi il prof. Di Giovanni dice particolarmente dei rapporti del Tasso col Marchese di Geraci che gli fu largamente liberale, e con gli Arci- vescovi di Morreale e di Palermo, e specie discorre di Filippo Paruta, che dettò una poesia per la morte del grande poeta. Indi il prof. U. A. Amico legge un forbito ed elaborato discorso in 4 PEL IIIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO cui esposte le teorie estetiche del Tasso, tratteggia la figura di lui co- me scrittore, dice del suo entrare nella Corte di Ferrara e del deside- rio amoroso che nasceva nell’animo di lui, esamina succintamente le varie sue opere, specie la Gerusalemme liberata, indi parla dell’ Aminta ne rileva il merito, e discorre poi dell’ ultimo periodo infelicissimo della vita del poeta. Il discorso fu coronato da applausi. Lessero poi due belle poesie le signorine, socie dell’Accademia, Ro- salia Majorca Mortillaro e Albina Buonpensiere de Baggis, che furono molto plaudite. ISCRIZIONE E DISTICI ann SS E= aa IN TorquatI Tasso OBITUM TRECENTESIMO ANNO VERTENTE R. ACADEMIA PANORMITANA SCIENTIARUM LITERARUM AC ARTIUM CARMINA ET LAUDES MERITO DICAT. Tasse, dolens quondam flevit tua fata Panormus, Vatibus et laudes tradidit Ipsa suis. Tertia quando aetas veniens persolvere mandat Justa, Urbs haec Italis praemia digna feret. Can. Joseph Montalbano. SINNI [Tx T-X *£<<=<<<-=---z-=-<<<<> Il seguente sonetto mi è stato cortesemente favorito da M.r Luigi Boglino che lo trascrisse nella Biblioteca Nazionale di Torino. È stampato , e trovasi fra altre carte di Giovan Francesco Pugnatore, Bresciano, che visse in Sicilia nel secolo XVI (1). i To lo pubblico, non perchè parmi bello, ma per mostrare in quanti modi l’infelice poeta abbia voluto significare la sua imperitura riconoscenza al pa- trizio siciliano, Conte di Ventimiglia, che gli era stato cortese di larghi ajuti. SONETTO Prisco onor, novo merto e nobil alma, Alto cor, larga mano, e chiaro ingegno, Sangue Real che d’alta gloria è degno, E che per lui verdeggi alloro e palma; Sono a la nave mia che tutta spalma Nel mar di vostra lode il porto, e il segno, Ma giunge» non vi può sì fragil legno, Se non gitto fra via la cara salma. Se d’oblìo non paventa il vostro merto E quel nome immortal che non affonda, Il mio perir non può se a Voi m'appiglio. Voi d’error mi trahete e di periglio, Siatemi polo, stella, aura feconda, E fate certo il fine in corso incerto. (1) Vedi V. Dr GrovanNnI: Le Antichità della felice Città di Palermo di Giovan Fran- cesco Pugmatore nelle Nuove Effemeridi, Vol. XI. Parole del Prof. DI GIOVANNI Il Presidente prof. V. Di Giovanni, non lesse, ma parlò del debito singolare dell’ Accademia di celebrare con tornata straordinaria il III Centenario di Torquato Tasso, attese le relazioni che ebbe il Tasso in Palermo, e gli onori che gli furono resi da’ suoi amici e contempora- nei. Fra’ quali furono letterati, signori, prelati, e principalissimo quel D. Nicolò degli Oddi, che, non palermitano, da giovane dimorò qui in Palermo nel Monastero di Santo Spirito, e fu, per la sua Difesa della Gerusalemme, scritta ‘col consiglio de’ nostri Accademici Bartolo Sirillo e Filippo Paruta, e letta e modificata nella compagnia letteraria degli amici che si radunavano nelle splendide sale di Don Giovanni Venti miglia Marchese di Geraci, il mezzo che pel can. Camillo Pellegrino autore del discorso dell’epica Poesia, contro cui si levarono quei della Crusca, fece stringere amicizia fra il Poeta bisognoso di soccorsi e il magnifico marchese. Si conoscono sul proposito le lettere del Tasso al Ventimi- glia, e a D. Nicolò degli Oddi; si sa degl’intendimenti del Tasso di vo- lere celebrare in un poema sopra Tancredi Normanno la Casa Venti- miglia, e si conosce la Canzone che solamente potè scrivere pel Marchese di Geraci, pubblicata la prima volta dal prof. Ugo Antonio Amico. Fu il Tasso protetto dal Card. Ludovico de Torres, Arcivescovo di Monreale, uno della commissione radunata dal Card. Cinzio Aldobrandini per giu- dicare la Gerusalemme, e il cui nipote Ferdinando aveva tenuto il bam- bino Torquato al fonte battesimale ; si che il magnifico e dotto Arci- vescovo donava nel 1591 al Seminario di Monreale fra i molti ritratti d’illustri uomini anche il ritratto in tela di Torquato Tasso. Il quale ebbe anche favori da D. Diego de Ajedo Arcivescovo di Palermo; mentre il marchese di Geraci lo invitava a passare in Sicilia offerendogli alloggio nel suo palazzo, oltre i ricchi doni e il denaro mandatogli in Firenze. I nostri letterati lo esaltarono in versi e in prosa, ritenendolo il più 14 PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO grande poeta d’ Italia: la Commedia degli Intrighi di amore si rappre- sentò anche dopo la morte del Poeta ripetute volte nel Teatro dello Spasimo, con grande spesa fatta dal Senato ; 1’ Aminta si musicò da uno de’ nostri, il Marotta, che fu tenuto come il creatore del melodramma pastorale, ed altri la ridusse in volgare siciliano per il popolo; e la Ge- rusalemme ridotta in versi latini da nostri letterati, imitata in due o tre poemi eroici che si scrissero in Sicilia sulla fine del secolo XVI, fu anch’ essa in parte vestita di forme siciliane pel nostro popolo. Le sue Bellezze furono esposte da Filippo Paruta e pubblicate in Venezia, nel tempo stesso che si pubblicava la Difesa degli Oddi, la seconda Difesa ch’ebbe contro i Cruscanti la Gerusalemme in Italia, facendo da interlocutori i nostri Sirillo, Paruta e Ventimiglia. La morte del Tasso fu compianta in versi italiani e in bellissimi distici latini, taluni dei quali si trovano ne’ mss. del Paruta, come i seguenti : Quid facis, oh? tantam non est cui lampada tradas! TASSI quis poterit sustinuisse vices ? Sustulit e mundo solem, quae te rapuit mors, Tasse: velut stella sed tua scripta micant. Cui decus omne suum cessit stupefacta vetustas, Postera cui cedent secula. Tassus hic est. Non tumulus Tasso positus est, sed meta poetis: Ultra non homini transiliisse licet. C'è di Filippo Paruta anche un sonetto 2 morte di T. Tasso; e bellis- simo senza dubbio è questo madrigale di Onofrio Paruta, Era muta, nè mano Tocear osava la celeste lira : Tu, sonator sovrano, La tocchi or, Tasso; onde al tuo suon si gira Il ciel più dolce: e più lucenti e belle Danzan le vaghe stelle. Gli onori che si resero al Tasso in Palermo, e ora si rinnovano in questo III Centenario, confermano la fama e il grido che solo ebbe il Tasso fra noi, detto fin dall’ ora nel Prologo della Commedia, da uno de’ nostri: «il più gran Poeta dell’età presente ». E invero finchè le lettere italiane non morranno, l’ alloro del Tasso rinverderà sempre; finchè nelle vene italiane scorrerà il gentil sangue latino, e non sarà mutato in sangue barbarico, la musica de’ versi del Tasso sarà la mu- sica della poesia italiana. Piacquero all’uditorio le parole e le notizie date dal Presidente nei termini riferiti.. P—____——__——_——_----£<“<-£° -—-«*££*«£«£<<<- edi rr I. ...n-'r.rr.r.[.--«E-< VNININSININSINI NS NI NI NI NINNI I SSNINSISISSNSAINASNS ASI NSNINISI SDAI NSINSNSSAI NINSSNSINA NINA NINA PDELOROOAhTOMESSO DISCORSO Del Prof. UGO ANTONIO AMICO Trecent’anni son corsi dal giorno funesto, in cui si spegneva la vita di Torquato Tasso; e la lunghezza di tre secoli non ha punto inari- dita una foglia di quel lauro, rivivente di sempre nuova verdezza, del quale amore , arte, e sventura lo incoronarono. Le maggiori città di Italia, nel festeggiare con solenni onoranze la memoria del grand’ uo- mo, han reso sempre più vero quel ch’ egli ci lasciò scritto : « Dob- « biamo riprovare il giudizio di coloro, i quali.... cercano di scemare «la gloria dei morti, la qual, per util della città, deve piuttosto essere «accresciuta, che in alcuna parte diminuita, perocchè in quelle re- «pubbliche, e in quei regni e in quelli stati, nei quali la virtù dei « morti non riceve grande onore, si porge ai vivi minore occasione di «bene operare ». (Della Dignità). E questa R. Accademia soverchia- mente confidò nella tenuità delle mie forze, commettendomi dire brevi parole per la ‘centenaria solennità; chè Vampiezza della materia, la splendida figura del poeta, le vicissitudini della vita di lui, penose, gravi, crudeli, avrebber dovuto avere altro oratore assai di me più capace. Il quale, giovandomi degli studj di tanti valorosi ingegni, nulla dirò di nuovo; nulla però che non sia vero : e richiamare alla memoria cose sapute è pur dolce cosa, se esse, in tante disdette d’arte e di con- siglio, d’alcun bene ci confortano, come parola di benevolo amico quando più e più cresce l’asperità dell’infortunio. 16 PEL IIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Fra quanti, per virtù d’ ingegno, han tramandato, nella ruina del tempo, un nome ornatissimo di gloria sincera, il Tasso è uno dei po- chi, dei quali la vita e le opere si fondono insieme in modo singolar- mente completo. L’ opera sua è un poema ; e la sua vita, tutta una poesia; e nascita, patria, genio, sventura, gloria e morte, fanno di lui la misteriosa apparenza d’un grande poeta. — E perchè fin dalla culla gli arridessero agli occhi visioni di naturali bellezze, sorti i natali a Sorrento ; terra che Bernardo aveva scelto a sua dimora . per ristorare e ricrear l'animo da gravi e assidue fatiche già stanco, e della quale ci la- sciò questa maravigliosa pittura. « L’aere è si sereno, sì temperato, sì « vitale, che gli uomini senza provar altro cielo vi vivono quasi im- &À mortali. Che più? Le mura, che la natura, quasi gelosa di così pre- A zioso tesoro, gli ha fatte, sono di montagne eminentissime , le quali A si verdi, si fiorite sì mostrano, che non invidiano a Venere i più va- ghi giardini di Pafo o di Gnido ; e le Najadi, vaghe della bellezza loro, per ogni falda versano, con urna di argento, freschissime e pure À À À acque, le quali, a gara con dolce mormorio scendendo, difendono le erbette e le piante da l’ira di Sirio, allor che con le fiamme sue in ogni altra parte arde la terra. Nè per altro i poeti questo essere al- bergo delle Sirene favolosamente finsero, se non per mostrare che tante eran le delizie di questo paese, che se l’ uomo, tirato dall’ a- menità e piacevolezza sua vi veniva ad abitare, non si sapendo dal visco e dalla rete di questi piaceri sviluppare, vi finiva i giorni suoi. «Il palazzo di Pollione, il tempio di Minerva, il capo di Cerere, i « teatri, le terme, i colossi, le statue, e l’ altre reliquie dell’ onorata «antichità, dimostrano in quanto pregio ed estimazione tenevano i Ro- A « À & & A I « mani questo luogo. » (Bern. Tasso, Epist. pag. 152). Ho voluto rife- rire queste parole di Bernardo, perchè da esse mi vien modo a confer- mare una sentenza di Cicerone, che scrisse: « Non tanto dal legnag- gio e dal sangue s’ingenerano negli uomini i costumi, quanto da quelle cose, che la natura del luogo natio e la consuetudine della vita ci somministra» (pro Lege agraria) pensiero che al nostro poeta piacque, e lo significò in quei versi, che dicono : La terra molle e lieta e dilettosa Simili a sè gli abitator produce. (Ger. ©. 1, 62) e se nella poesia del Tasso è sempre un che d’idillico ; e la voce del- l’anima gli fa dipingere più vivamente e scene e figure, ov’ è senti- mento di bellezze naturali, e schiettezza e semplicità di affetti, ciò io PEL II CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 17 credo con molti si deve a quell’impronta incancellabile, che si sigillò nell’anima di lui, soavemente gentile, e fervidamente passionata , nei pochi anni trascorsi in quegli ameni silenzj sorrentini, tra i baci della madre e le carezze del genitore. Questa vita di lieti affetti e modesti gli mise nell’animo un vivo de- siderio di vagheggiar la bellezza, fonte limpidissima di sempre miti ispirazioni, agil’ala all’ingegno, che sa in ogni lume, che la raffigura, adorare qualcosa, che trascende 1’ universo; e dalla quale esce una virtù, che rinnova, una parola, che inciela. Questo, dirò così, trasu- manarsi, gl’illeggiadrisee la mente di parvenze nuove, luminose, che dalla terra, che li produsse, si levano su, su; e quanto più piglian dell’alto, tanto, serbando l'umano, d’ogni imperfetto si spogliano : e vi- goreggia nella mente quel finito, quel completo, quel tutto armonico, onde sorse Elena dal pennello di Zeusi; che non nacque, no, dalle forme più belle, ammirate nelle bellissime donzelle crotoniate, ma dalla ima- gine di lei, per la quale tanto reo tempo si volse, che fulgeva radiosa di ammirabile perfezione nella mente dell’ artefice , prima ancora che dai singoli modelli traesse 1’ esempio del segno sensibile delle singole parti. Ma questo correr dietro ai fantasmi ci riduce in un mondo quasi fuor di natura; onde è d’ uopo governare sì fatto ideale in guisa che al reale somigli; ed a questo provvede quella sapiente virtù di alcuni universali veri, e infallibili ; raccolti dalla esperienza di molti parti- colari, la cognizione dei quali arte si dimanda; (asso, Prose) ed arte, secondo il Tasso, è certa ragione, nè vi ha certezza nell’arte che non sia nella natura (il Ficino) ed in tal guisa, armonizzando le creazioni della mente, esagitata da quel fuoco, che Dio fu detto dagli antichi, est Deus in nobis agitante calescimus illo, Vartista, contemplando il pro- prio lavoro, può a ragione ripetere col Tasso medesimo : Di natura arte par, che per diletto L’imitatrice sua scherzando imìti. (NZV, 20) versi che hanno spiegazione con le parole del Foscolo : « L'arte, imi- «tando la creazione invariabile, coglie il vero; ma il Genio erea Vi- «deale, indovinando, radunando e distribuendo sopra un solo oggetto, «con le stesse leggi, e con la stessa spontanietà della natura, le va- «rietà che ella ha sparse sopra diversi oggetti; o che ella avrebbe 9 18 PEL Ill CENTENARIO DI TORQUATO TASSO « potuto creare e spargere onde rendere più belle 1’ opere sue. » Li- deale scompagnato dal Vero, non è che o stranamente fantastico , 0 metafisicamente raffinato ; ma senza | ideale ogni imitazione del vero riuscirà sempre volgare. (V. 4. 121). Queste norme, desunte dai Dialoghi del Tasso, taluni dei quali par- vero al Giordani prosa bellissima ed eloquentissima, ho dovuto signi- ficarvi perché veggiate, o Signori, che parlandovi ora e appresso di opere d’arte, io dal vedere di lui non mi allontano; parendo a me nulla con- correr meglio alla conoscenza di un autore, che conoscerlo prima nelle leggi, che a se propose. A confortar la mente in queste visioni del Bello e dell’ Arte, così agili, così appariscenti di vivida luce, ben concorse il gusto del tem- po, nel quale il nostro aperse l’ intelletto ai fulgori della poesia. In allora vivissimo era il compiacimento alle azioni romanzesche : il Bojardo, e l’Ariosto con cento minori, pennelleggiavano agli occhi avidi di maraviglia un mondo del tutto poetico, nel quale tace ogni ragione della vita reale ; l’amore e l’ onore sono l’ uniche leggi che lo gover- nano; e gli affanni e le inquietudini, che aspreggiano la società civile, non trovano un core capace di sentirle, tutto inteso 1’ uom prode alla virtù del braccio; invogliato com’è da amore e cortesia. O torri, o celle, O donne, o cavalieri, O giardini, o palagi! A voi pensando In mille vane amenità si perde La mente mia. Di vanità, di belle Fole e strani pensieri Si componea l’umana vita. 5 ( Leopard: ) ed anche oggi, in mezzo a’ tedj che ci affogano , ed al lezzo che ci ammorba , piace questo mondo imaginario , e ci è diletto viaggiarlo, per riposarci da una morale stanchezza, poichè sparirono gl’ inganni con le loro dilettose sembianze. Aveva diciotto anni, ed egli entrava col suo Rinaldo in questo mon- do; vi entrava ricco di studj, pieno il core e la mente di quella ver- ginale alterezza, che annunzia la fiducia nel proprio ingegno; e crea femminili bellezze, e virtù di valore, che fanno così gentile Clarice dal giorno, che innamora di Rinaldo, fino a quando con lui si fugge e le divien moglie; ed egli, magnanimo, e generoso sempre, dal di che PEL Ill CENDENARIO DI TORQUATO PASSO 19 si diparte da Parigi, invidiosetto della gloria di Orlando ; sino al gior- no, che libera l’amorosa donzella dalle mani dei Saraceni e la fa sua. Veramente mirabile saggio d’ alto ingegno in età: quasi ancora adole- scente! — Ma nell’ accennare le belle doti del giovanetto poeta, per abbondante vena, e copia d’imagini, e d’invenzioni leggiadre, sorge agli occhi di tutti quel mite dolore, ch'è segno d’ animo gentile ; e nella novantesima ottava dell’ultimo canto, suona una nota così malinconica, che fa presentire il Tasso degli anni non lontani; ed i versi son questi : Così scherzando io risonar già fea Di Rinaldo gli ardori, i dolci affanni, Allor che agli altri studj il di togliea Del quarto lustro aneor dei miei verdi anni, Ed altri studj onde poi speme avea Di ristorar d’avversa sorte i danni; Ingrati studj dal cui pondo appresso Giaecio ignoto ad altrui, grave a me stesso. Questa nota di dolore lo distacca dalla più parte dei suoi contempo- ranei ; come questa aurora del suo ingegno lo preconizza il più gran- de poeta, che chiuda il fecondissimo cinquecento; e gemito di dolore e virtù altissima di mente ci predicono in lui un altro grande e infelice. Nell'ottobre del 1565, compiuto già da sette mesi il ventesimo anno, entrava nella corte di Ferrara qual gentiluomo del cardinal Luigi. — Era dapertutto un preparar feste per le vicine nozze del Duca Alfonso con l’arciduchessa Barbara d’ Austria; e la graziosa cittadina parve agli occhi del fervido giovane maravigliosa e non mai veduta scena. E più crebbe l’esultanza sua quando, accolto nella reggia estense , il Duca Alfonso gli fu largo d’ ogni gentilezza cortese ; e, come sèguita sempre , alle cortesie del Duca, che lascia un dubbio nel poeta s’egli sia miglior duce o cavaliero, tutti lo festeggiano, tutti onor gli fanno. Ma quel che ferisce la fantasia giovanile è un altro mondo, che gli si rivela; ed a me par bello presentarlo coi versi medesimi del poeta: Oh! che sentii ! che vidi allora! Io vidi Celesti Dee, Ninfe leggiadre e belle, Nuovi Lini ed Orfei, ed altre ancora Senza vel, senza nube, e quale e quanta Agl’immortali appar vergine aurora Sparger d’argento e d'or rugiade e raggi; DOTI 20 PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO E, fecondando, illuminar d’intorno Vidi Febo e le Muse; e fra le muse Elpin sedere accolto, ed in quel punto Sentii me far di me stesso maggiore, Pien di nuova virtù, pieno di nuova Deitade e cantai guerre ed eroi. Che aeree visioni! Che mirando spettacolo! In età così giovane, con tant'esca amorosa al core, tanto rigoglio di vita nell’ anima, trovarsi in mezzo ad un coro di donne bellissime, due delle quali avevan viva ed impressa la grazia di Francia, e ’1 sentimento d’Italia; trovarsi fra le peregrine ricchezze d’una reggia, radiante di luce, di orerie, di mi- rabili cose, che abbagliano gli occhi del poeta; cui pareva trovarsi in grembo a palagi incantati, a giardini usciti dal suolo, posti e coltivati dalle mani delle fate ; ed ogni cosa che mirasse, ogni voce che sen- tisse, ogni sguardo in cui veniva per caso ad incontrarsi, non era che un’insolita, ma desiderata apparenza di amore! La sembianza di lui, meditativa e serena, accendevasi come di luce placata e blanda, quan- do vedeva quelle fantastiche creature rotear nei balli, o sciogliere soa- vità di canti, o destar da strumenti non prima veduti o intesi note ar- moniosamente soavi; e tutto intorno poi l’aere circostante odorato da morbidi profumi, rallegrato da’ giorondi sorrisi dell’alacre giovanezza. Scende nel cuore del giovane poeta a tal vista, a tale incanto una nuova dolcezza; e gli serpeggia per le vene una soave giocondità, che par grato sopore , ed è vita purissima dell’anima, e gli pare di essere in un’ infinità di lume candido, e nel candore immoto vivi baleni si movono a onda, e l’onde mandano un suono quieto e interminato che gli susurra: Amore amore: ed egli dentro al cor suo di rimando ri- sponde : S Amor soave È più ch'aura non suol di fronda in fronda, Quando non spinge in porto armata nave, Ma sol fa tremolare i giunchi e l’onda In pure voglie oneste Amor s’'infiamma e poi divien celeste. Forse allora gli tornarono alla mente le sembianze della giovanetta, da lui amata, quand’ era dell’ età sua nel primo aprile; e mirandola ave- va seritto : Io che forma celeste in terra scorsi Richiusi i lumi...... PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 21 perchè l’ imagine accolta nell’ intimo del core è una sacra cosa e gli occhi non ardiscon di guardare ; forse..... ma di queste primizie di sua giovinezza aveva detto : I primi ardori sparge un dolce oblio. Ma ora il core fervido esulta. Quanto nel vago imaginare aveva ve- duto, qui non è più visione incerta di chi si appassiona; ma bellezze fiorenti, ed amore, che rinnova l’uomo a vita dirò quasi, più vigile, più sollecita, più irrequieta, ma più faconda, perchè più vera. Adora quelle muliebri beltà, come in sogno si vagheggiano beltà celesti al mondo nuove, e nel misterioso linguaggio dell’anima, tacendo favelli ad alcuna su cui fisa attonito la pupilla: La bellezza, che adorai nel mio secreto, mi risfavilla in te, creatura celeste ; tu rispecchi quello esemplare, che la natura scolpiva nel mio seno, e mi piaci, ed a te volo come farfalla al fiore, come alma ad alma, se nutrille amore. Lasciamolo nella lietezza di questi istanti: 1° ore, che gli danzano attorno spargono di adorosa fiorita il cammino, nel quaie, egli s'è messo! Ahi non è lontano quel giorno, in cui ai primi rigori del verno sfioriran quelle rose; ed egli, ritornando a misurare il corso degli anni passati, vedrà che queste dolcezze non sono che un inganno; miraggi di luce, che allettano con fuggevoli orizzonti di verzure, di fontane , di laghi limpidissimi l’aridità del deserto; e lo sentiremo rimpianger sè stesso con versi, mirabilmente veri : Me dal sen de la madre empia fortuna Pargoletto divelse: ah di quei baci Ch’ella bagnò di lacrime dolenti Con sospir mi rimembra, e degli ardenti Preghi, che sen portar l’aure fugaci, Ch’io giunger non dovea più volto a volto Fra quelle braccia accolto Con nodi così stretti, e sì tenaci..... Lasso ! e seguii con mal sicure piante Qual’Ascanio o Cammilla il padre errante. Chi sa se le delizie d'oggi, e la continuità delle gioje, avrebber fatto di lui il poeta d’ogni anima gentile, senza quel fiero e grande maestro di tutti gli animi grandi : Il dolore. L’anno appresso alla pubblicazione del Rinaldo, Torquato comincia un nuovo poema, e lo intitola Gotifredo dal protagonista della prima 22 PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO crociata; e vi si mette con lena si vigorosa, che tre anni dopo ne mo- stra a Scipione Gonzaga, a Giovan Vincenzo Pinelli, a Iacopo Corbinelli i primi sei canti. Aveva già imaginato, e ne scrive ad un suo amico, l’imprese di Belisario contro i Goti, e l'altre di Narsete; e le più ar- dite e gloriose oprate di Carlo Magno; ma tutte pospose a quelle del pio Buglione; egli tale, come scrive il Carducci, da poter sorgere poeta e del rinnovamento cattolico, e della civiltà cristiana; egli il solo cri- stiano del Risorgimento. Tutta l'Europa cristiana, continuo col Carducci, sentiva minacciata la sua civiltà dall’ impero ottomano ; e mentre il poeta scrivendo i suoi versi inneggiava ai cerocesegnati, le acque di Lepanto suonavano al fragore della battaglia, che fu 1° ultimo cozzo glorioso fra l'occidente e l’oriente; l’ultima grande battaglia cristiana, della quale fu tanta parte l’Italia; perchè Venezia vi accorse con cento ventisei navi; ed oltre quelle del Papa, quarantanove ne mandava la nostra Sicilia. Scriveva il Tasso a D. Angelo Grillo : « Jo confesso d’essere amatore di gloria: il quale amore, sì come il morso della vipera, non suol manifestarsi se non a coloro, che parimenti ne sono accesi ». E questa, come la disse il Parini « Fulgida cura onde salir più agogna» pungeva il desiderio giovanile di Iui, più che qualunque altra; ed, inteso a rag- giungerla, si spazia nel volume Gesta Dei per Francos, dal quale, come da selce, sprigiona scintille, che, a poco andare, divampano in fiamme luminose. Primo merito di lui è l’aver trovato il più bello argomento possibile al genio «d’un poeta moderno, e questo è nella gran lotta fra due popoli; uno che doveva condurre l’uomo a grande civiltà, 1’ altro che gli preparava il più vile servaggio. È vero che quando i crocesegnati si messero a questa impresa durissima avevano dinanzi un popolo su- periore nelle lettere e nelle arti; ma esso aveva superata la cima della gloria, dopo la quale non era che lo sdrucciolo e la rovina. I crociati però, terribili nella rudezza de’ costumi, e nell’impeto della fede por- tavano i germi di grandi cose. La vittoria di loro, se fosse stata du- ratura, avrebbe introdotto nell’Asia i nostri costumi, e gli usi nostri; fertili sarebbero le rive del Giordano, le valli deliziose del Libano; e le mura di Gerusalemme non si adergerebbero solitarie fra squallide sabbie, e colli dispogliati d’ogni verdura. Che danno all’Europa se la vittoria arrideva agli orientali ! Avremmo perduto, chi sa per quanto tempo, quella vigoria, onde ancor oggi siamo così possenti; e negre fo- reste, e limose e torpenti paludi sederebber colà, ov’è tanto rigoglio di verde salubre, e guizzo d'acque limpidissime. Ma, giovandomi del Sismondi, continterò dicendo, che non era questo che accendeva alla battaglia i due popoli; essi non combattevano per PEL IIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 23 quel che sarebbe seguito alla vittoria, ma perchè erano esagitati alla pugna da una credenza religiosa. Gli orientali confidavano nelle promesse del profeta, il quale non designava termine al trionfo della mezzaluna; gli occidentali avevan fede che nulla era per loro più glorioso che li- berare il sepolero di Cristo, e i luoghi ov’egli penando e morendo aveva compiuti i misteri della umana redenzione; e il grido « Dio lo vuole » ch’echeggiò a Clermont ed a Piacenza suscitava tanti guerrieri, quanti erano i credenti, perchè la fede era allora guerresca; e brandir le armi, lasciar le famiglie, affrontar mille pericoli, morire sotto cielo straniero, non era che soddisfare e rispondere ai doveri della religione. Stupendo sentimento, ed altamente poetico! Il sacrifizio di sè stesso, e l’anima ri- volta a Dio creano gli eroi; come la fede stessa creava il sopranaturale. I guerrieri tutto opravano per Dio; e Dio doveva sovvenirli nelle mag- giori strettezze, onde la fiducia nella vittoria, il trionfo della croce sul signacolo degli infedeli. I quali non avevano minore speranza di soc- corso nella protezione del profeta; e nelle loro moschee invocavano l’ajuto, che Maometto aveva promesso ai credenti. Quale tema più degno per un poeta profondamente compreso, come era Torquato, della santità del soggetto; più degno del canto della musa celeste, poichè la religione comune è una patria comune e le crociate ch’erano state l’eroico entusiasmo dei secoli precedenti, eran rimaste unica tradizione eroica dei popoli credenti. E ne accresceva il merito l’accorrere di tutti i popoli cristiani; dalla nostra Sicilia, alla divisa dal mondo ultima Irlanda; dalla Grecia alla Danimarca, alla Norvegia; senza dir della Francia, sempre generosa e magnanima nazione. E la fede, che avvince nella grande unità del pensiero cristiano 1° Europa tutta- quanta, esulta innanzi ai seguaci del profeta, che arman d’Asia e di Libia il popol misto; e si congiungono insieme nell’un campo e nell’altro soldati così dissimili di costumi e di favella, nel fervente desiderio delle diverse credenze religiose. Lui fortunato, scrive il Cantù, fortunata Vita- liana letteratura, se soltanto dalla storia e dalle devote memorie avesse attinto l’ispirazione, anzi che tornare alle invenzioni romanzesche , a magie e incantesimi e sconveniente imitazione di frasi, di soggetti, di concetti (€. p. 495). Nobili e sennate parole per noi, troppo positivi, così tardi venuti; ma non così la pensava il Foscolo, che lasciò seritto : «Veri sono i racconti nelle parti sostanziali; e se alquanto si dilunga dalla trita via della storia, ciò fa coll’intendimento di concitare i posteri ad emulare le virtù, per le quali andaron famosi i nostri antenati. Il Tasso non offende la poetica probabilità introducendo magie ed incanti e spiriti e demonj... In vero noi non dobbiamo giudicare della macchina 24 PEL II CENTENARIO DI TORQUATO TASSO poetica a mente delle odierne nostre credenze, ma sì a norma delle opinioni prevalenti ai tempi, nei quali scriveva il poeta: egli non po- teva presagire la credulità o la ineredulità nostra». Del resto nessuno si aspetti ch'io entri a dire delle discordie, che travagliarono un giorno gl’ingegni con accuse e difese; pigliamo il poema qual’ è, e su d’esso fermiamoci per brevi istanti. È saputo come Torquato intendesse, contro l’uso dei poeti romanze- schi, stringer la materia dentro un confine determinato; perciò non si permette di deviare dalla via maestra, fuorchè quand’egli è in grado di render ragione perchè ne devia, e sa misurare le forze proprie in modo da raggiunger la meta senza fatica; e, più si avanza, più cresce di rapidità ( Yos. v. Z. 2/6) e ben fu detto che una lettura attenta della Gerusalemme, la porge alla mente, come un tempio greco contemplato da un solo sguardo (ivi). Ed è per questa unità che nei primi canti il poeta ci guida, nei seguenti c’invita a tenergli dietro, negli ultimi ci trascina seco con tutto nostro piacere. Or che cosa è egli mai il poema, che noi con voce retorica siamo soliti chiamare epopea ? È l’imagine della storia, è la storia alterata dalle favole, incorniciata nella poesia, ma sempre la storia, conforme ai tempi, ai costumi, agli avvenimenti, o di popoli grandi apparsi sulla scena del mondo, o di grandi fatti che impressero un’orma incancellabile sulla terra. Senza verità il poema non è più epico; il poeta non canta più, ma si trastulla con la propria imaginazione e quella dei leggitori. Lo avevan, prima di lui, tentato parecchi, ma senza riuscita; il Trissino, l’Oliveri, il Bolognetti, il Giraldi, l’Alamanni diedero prove assai poco felici, e non si credeva la musa italiana d’ altro capace che delle follie caval leresche. E pure questi tentativi mostravano come l’Italia lo attendesse questo poema; che anzi primo a piegarsi a tal forma era stato Lodo- vico Ariosto, secondo che con sano giudizio ne insegna il Ràina; e vi si era messo anche Bernardo Tasso, innanzi che desse al suo Amadigi abito del tutto cavalleresco. Alla mente del nostro poeta, educato alle leggi aristoteliche, parve che la materia della Gerusalemme rispondesse alle intenzioni dell’epo- pea omerica, e di essa s’invoglia, e scrive. Scrive, come se cantasse in versi la giocondità d’un sogno; intesse e racconta un romanzo con tale vivacità d’imaginazione, di pietà, d’eroismo, di tenerezza, che noi a leg- gerlo, dimenticando tempi, luoghi, costumi seguitiamo le toccanti av- venture, come fossero una storia; ci serpeggia per la mente ed il core una soavità, che quasi quasi ci chiude entro agl’incantesimi della sua PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 25 Armida, inebbriati di melodia; e queste scene tutte colorite da uno stile nobile, lumeggiate da vivide fantasie, soffuse da armonie sì fatte, che ci abbagliano del loro splendore, e ci cullano con note di musica ce- lestiale. È così che sorge la figura di (roffredo, di Rinaldo, di Tancredi, di Solimano, di Argante, e degli altri migliori, che il canto maraviglioso appella. È così che questi generosi compiono opere mirande; mirande perchè eguale il valore, dissimile solamente la credenza religiosa; virtù eccellente nel nostro, che non volle prodi da una parte e vigliacchi dal l’altra; ma strenui ed acri i rivali, perchè meglio spiccasse il valore dei combattenti, eguali tutti nella prodezza delle armi. Ma là dove il poeta sovraneggia è a punto nella creazione delle fi- gure donnesche; ed in ispecie, ( lasciando la Sofronia, e la Gildippe, a mio corto vedere alquanto fredduccie, ) in quelle di Armida, Clorinda, Erminia. Nella maga, innamorata di Rinaldo, è tutto quel che Virgilio chiuse nel « Notumque furens quid foemina possit », specialmente in quella parte del dramma che la dipinge furiosa d’amore. Nulla vale nell’animo del crocesegnato la malia voluttuosa, e la promessa di gioje ancor fre- sche ed intatte, come per il nio Enea nulla poterono le lacrime dell’in- felice Didone; nulla le profferte di umile sommissione di lei, la quale Dolente sì che nulla più, ma bella, Altrettanto però, quanto dogliosa. Lui guarda, e ’n lui si affisa e non favella : O che sdegna, o che pensa, o che non osa. Ei lei non mira; e, se pur mira, il guardo Volge furtivo, e vergognoso e tardo. (Canto XVI, st. 41). ‘mi occorrerebbe riferir tutto il canto per venir poi alla tremenda de- lusione : Beltà, sei di natura inutil dono! (st. 65). ed alla catastrofe dell’ira implacabile della maga. La quale Giunta agli alberghi suoi, chiamò trecento Con lingua orrenda Deità d’Averno. S'empie il ciel d’atre nubi, e in un momento Impallidisce il gran pianeta eterno; E soffia e scote i gioghi alpestri il vento, Ecco già sotto i pie mugghiar l'inferno. Quanto gira il palagio, udresti irati Sibili ed urli e fremiti e latrati. 26 PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Ombra più che di notte, in cui di luce Raggio misto non è, tutto il circonda; Se non se in quanto un lampeggiar riluce Per entro la caligine profonda. Cessa alfin l’ombra; e i raggi il Sol riduce Pallidi; nè ben l’aura anco è gioconda : Nè più il palagio appar, nè pur le sue Vestigia, nè dir puossi : Egli qua fue. (67, 68). Nè manco bella è Clorinda; la quale, come per La tigre, che sull’elmo ha per cimiero Tutti gli sguardi a sè trae (29, 38). tira a sè la nostra curiosità fin da quando comparisce nel secondo canto, e libera i.due amanti Olinto e Sofronia dalla pena del rogo, a cui son condannati. Ma là, dove il Tasso è d’ una virtù creatrice unica, per quanti poeti si leggano, è nel dodicesimo canto, allor che, sconosciuta, scende a singolar certame con Tancredi, che perdutamente l’ama, e, ferita a morte da lui, ne ha il battesimo, e morendo profferisce quei versi, che tutti ricordiamo : Amico, hai vinto.... io ti perdon.... perdona con quel che segue. È una delle scene, come fu scritto, le più dram- matiche; il rilievo della figura è vivificato da un calor vero di senti- mento; e la realità mette termine e si confonde col soprannaturale ceri- stiano. Noi si è rapiti in un mondo , che vince la potenza del nostro imaginare ; e lo sentiamo questo mondo singolarmente in quella ma- raviglia di ottave, dalle quali trascelgo due sole : Poco quindi lontan, nel sen del monte, Scaturia mormorando un picciol rio: Egli vi accorse e l’elmo empiè nel fonte, E tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte Non conosciuta ancor, sciolse e scoprio. La vide la conobbe; e restò senza E voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! DO SI PEL IIIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO E l’altra della morte : D'un bel pallore ha il bianco viso asperso, Come a gigli sarian miste viole; E gli occhi al cielo affisa; e in lei converso Sembra per la pietade il cielo e il sole. E la man nuda e fredda alzando verso Il cavaliero, in vece di parole, Gli dà pegno di pace. In questa forma Passa la bella donna e par che dorma. Sotto la penna degli altri poeti, non si son viste le figure così pal- pitanti della vita dell’artista, come in questa Clorinda e nel magnanimo Tancredi è tutta l’anima cavalleresca e gentile del divino poeta! ! E non so passarmi della Erminia bellissima, che, dalla reggia di Antiochia, fu tra le altre prede di Tancredi; da lui onorata come regina e lasciata libera. Ma ella dell’amore del guerrier cristiano così rimase avvinta, che laccio di questo più fermo giammai non istrinse anima amante! Ama la misera ed arde; e quando, dentro Gerusalemme , rigira gli occhi verso il campo cristiano, sempre di lui coi suoi pensier sospira e parla. La conoscemmo fin dagli anni primi portata in balia del suo cavallo in mezzo ad alberi ombrosi dileguarsi al guardo altrui. Che incantevole mattino quando , svegliatasi al canto degli uccelli, che si accorda al mormorio delle acque, al fresco susurro delle foglie, le giunge il suono di boscarecce inculte avene; e vede a sè innanzi, coronato da figlioli amorevoli, un vecchio pastore, inteso a tesser fiscelle ; il quale al bagliore delle armi, insolite in quei luoghi riposti, impaura; e maraviglia a sentir lei chiedere asilo in quella solitudine segreta; da ogni lato della quale spira soavissima aura di pace, mentre tutto intorno il paese arde d’alto incendio di guerra. Questa vivissima scena campestre, continuata ancor lungamente, segna, nel poema del Tasso, un luogo di arte potente; nè si legge senza che l’anima se ne appassioni, e non si ridesti a sempre nuovi palpiti, rileggendola dopo anni ed anni; chè essa nulla ha perduto, e piace perchè vera, e l’anima del poeta parla il linguaggio che detta la faconda natura. Ma non meno bella è questa regale fanciulla, quando, visto il suo Tancredi battersi col prode Argante, li sa entrambi feriti. Si veste delle armi di Clo- rinda, gravi assai all’elegante sua persona; e in compagnia d’una guida, esce furtiva di Gerusalemme: 28 PEL II CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Era la notte, e ’1 suo stellato velo Chiaro spiegava e senza nube alcuna: E già spargea rai luminosi e gelo Di vive perle la sorgente luna. L'innamorata donna iva col cielo Le sue fiamme sfogando ad una ad una; E secretarj del suo amore antico Fea i muti campi, e quel silenzio amico (e. 6, 103). Infelice! Quante speranze perdute! Amore le aveva detto, che Taneredì . te d'abbracciamenti onesti Faria lieta e di nozze avventurose : Poi mostra a dito ed onorata andresti Fra le madri latine e fra le spose Là nella bella Italia, ov'è la sede Del valor vero e della vera fede. Che mite gentilezza nel cuore amoroso di costei! Privata del trono non pensa a riacquistarlo, ama chi ne la dispogliò; e, premio a tante dure vicende di sorte, non sogna che le nozze col suo vincitore, e venir nella bella Italia, ed esser additata come degna del nostro glorioso eroe normanno ; ed cella, pagana, saluta la penisola come sede della vera fede. E come no, se le si parano alla vista innumerevoli accampa- menti, che ella saluta : Oh belle agli occhi miei tende latine, Aura spira da voi che mi ricrea (6, 104). E come non amarla questa Italia se la voce del pontefice raccoglie tanti eserciti, quante son nazioni credenti; se la parola d’un povero monaco, Pier l’eremita, tutta riaccende l'Europa in un volere. Ai piedi del castello feudale risvegliasi ogni villa, perchè una voce ha passato i monti e i mari lontani, e li ha avvicinati nell’inno della fede; e la troniba dell’arcangelo, che non isquillò al tempo temuto per ridestare i morti dal loro sepolcro, e venire al giudizio; echeggia un secolo dopo, ed agita i popoli di occidente nel fondo delle loro pianure, al grido di soccorso, che aspettano i miseri fratelli là, vicino alla tomba di Gesù Cristo, presso alla quale muojono sgozzati per mano degl’infedeli. Se il pio Enea non fosse stato il modello, ed Aristotele il legislatore, l’Italia avrebbe davvero potuto dire : Nescio quid majus nascitur Iliade. PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 29 Vi ha nella poesia del Tasso un che di elegiaco e d’idillico insieme, che rivelano la mestizia e il candore dell’anima gentile del poeta. La sventura a volte, ma più di frequente il linguaggio della natura, ci distraggono dalla realità delle cose; un senso di mestizia ci punge nel vivo del core; ed a ripararci dai continui disinganni, ci è conforto ricorrere al passato della nostra vita, a quei miti splendori d’' un’ età innocente, in cui provammo un gaudio senza rimorsi, una candida gioja; la cui imagine, impressa da vivace sentimento nell’anima, ritorna ad ogn’istante nei nostri sospiri, e, senza poterla fermare, ci tremola sempre innanzi alla fantasia con le vergini rose dell’alba della vita. E perchè quel ch’esulta entro di noi ci piace comtemplare in altri, dalle memorie della nostra fanciullezza, passiamo alla gioventù del mondo, dolcissimo sogno, che inebbriò di creazioni poetiche le menti d’inglesi e tedeschi, come aveva assai prima sorriso alla imaginazione del nostro Torquato. Quante volte nell’affanno dell’ anima non ritornò alle verdi piagge della sua Sorrento! L’augelletto ferito cerca morire nel nido che lo vide nascere! E quante altre non gli parve correre nella paterna ombrosa selvetta, e in quegli odorosi viali diportarsi giulivo sul primo far dell’alba, e pendere dal collo della madre sua, ogni bacio della quale sigillava nella giovane mente i colori del vestito che egli indossava, insieme allo specchio dell’onde vicine, alle fragranze del colle coronato di brune e lucide foreste di aranci e di allori. Da queste parvenze passar alla favola pastorale, dico all’ Aminta, non fu che un mettere in iscena sé stesso nelle figure dei personaggi che piglian parte in quella poesia, continuo e vario spettacolo di bel- lezza, che viene da finitezza gentile delle parti, ed è virgiliana; sapendo il poeta come la semplicità sta nel concetto; e variare nei particolari non è che seguir la via per cui la bellezza si raggiunge. Da ogni atto, da ogni scena, da ogni verso di quella Pastorale, io veggo le bianche case dei contadini comparire e disparire tra il fogliame degli alberi, e i rigogli delle messi; e pender nell’ alto tra il verde della selva montana biancheggianti Ie greggi tra i pascoli, come can- dide spume, che galleggiano sugli azzurri dell’oceano. Che armonie fresche, pudiche; e che leggiadria di tinte con sì mo- desto colore, ch’ egli ha nella sua tavolozza , cd ei solo sa trovare ! Vengan da Anacreonte, da Teocrito, da Virgilio, da Tibullo, che vuol dir egli ? Il pensiero e l’imaginazione riproducono entro di noi 1’ uni- verso esteriore e morale, che poi V arte e la parola rappresentano al di fuori; e se si assegue quella perfezione, che porta ammirazione, noi KI abbiam raggiunto quel bello, al quale l intelletto umano è possibile; 3 PEL HI CENTENARIO DI TORQUATO TASSO l'intelletto, che è lo specchio pensante della natura, in cui tutto si disegna, tutto si anima, tutto rinasce per opera della poesia; virtù stupenda- mente creatrice, che si giova degli elementi, delle imagini, delle remi- niscenze, prodotte già dalla natura; le quali vigoreggiate dall’ affetto, che le accoglie, e dalla fantasia, che le orna di eletti colori, si pingono, si affacciano, si rinnovellano sempre davanti agli occhi della mente, diventan nostra natura; e, non richiamate, si vestono di luce; vive di sempre nuova e vegeta beltà: perchè un medesimo oggetto ,, guardato da un nuovo punto, riflette in noi nuove idee, nuove passioni ; e per ciò, e non altrimenti, poesia e creazione sono una medesima parola; e poesia e verità sono eterne, candidi fiori del cuore e della mente dell’uomo, inebbriati dall’eterna vitalità dell’amore. Nel libro della vita dell’uomo vi ha una pagina, nella quale a ca- ratteri indelebili è scritto : « Sii grande e infelice!» E se per i vera- mente Grandi non mentisce la sentenza di Properzio « Ingenio stat sine morte decus » non è men vero che gli oltraggi della vita, le sevizie dei potenti, la rivalità degli emuli, la stridula voce dei pigmei, l’ingrati- tudine continua degl’ immemori , fan più desiderata la morte , che la luce del giorno, ripetendo a loro medesimi « Morte sol mi darà fama e riposo». Nel 1579, nell’anno a punto in cui sopra un umile paglie- riccio dell’ospedale di Vera Crux in Lisbona, moriva deserto, spregiato, mendico Luigi Camoens, le ferree porte della prigione di Sant’ Anna, stridendo, si aprivano per richiudervi, come in tomba di viventi, una vittima, il più grande poeta del secolo, Torquato Tasso. Non è ora nè luogo a investigar onde Alfonso mutò l’affetto in odio, ammirazione in crudele dispregio : egli non vide come da quel giorno la nominanza di lui sì aggregava a quella dei despoti; più feroce ancora che Nerone, godente alla morte di Lucano, poichè egli prolungando la vita al Tasso sì saziava nella bestiale ferocia di saperlo vivo, e godeva negli strazj peggiori della morte istessa ! Fa pena veder questo grande poeta, con- finato in umida celletta, senza libri, senza compagnia, senza nulla del bisognevole, che ai più scelarati colpevoli si appresta. Io me lo fingo alla mente come uno degli Dei del paganesimo, cacciato dal cielo, che nella gravità del dolore superbisce di sua origine divina, quale Apollo quando ricingeva di mura Ilio nascente: e mi pare vederlo solingo entro alla muda, ripetere a se stesso i suoi versi : S’egli è ver che nulla a virtù nuoce, Di questa armiamcei; e a lei chiediamo aita. (X 37). PEL IIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO 5I E così quando questo sacro ingegno aveva bisogno di pace, di conso- lazione, e di una parola pietosamente amica, che penetrasse nell’anima, inamarita da così acerba sventura, ei da questa pigliava vigorezza alla lotta, come il vagabondo Omero dal pane di Glauco pescatore, più che dal pasto frugale negatogli dai Cumèi : e chi sa quante volte ombra del padre Dante non gli avrà mormorato all’orecchio : « L’esilio che mi è dato a onor mi tegno ». Sette anni, lunghi, affannosi, disconsolati penò in quella tomba; e quando tornò, signore di sè stesso, a riveder le stelle, nulla gli arrise più, nulla gli piacque di questa erema terra, squallida agli occhi suoi, senza un fil di verde che la colorisse di speranza. Ma un giorno gli ritorna la gioja; e quando credeva raggiunger quella gloria che (è lui che parla) « malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo dai miei scritti», ed era già vicino ad averne il guider- done; e Roma si apprestava a cingergli la fronte della corona del trionfo; allora travagliato di più da’ mali, che gli funestaron tutta la vita, ri- para al monestero .di Sant'Onofrio nella speranza che l’aure primave- rili, più vivaci sul Gianicolo, che in altro luogo dell’eterna città, gli desser alito di vita novella. Era di poco entrato l’aprile, non vivido di luce e d’azzurro, ma ug- gioso per nebbie e piogge continue. La carrozza del cardinale Cinzio Aldobrandini si ferma innanzi alla porta del chiostro ; ed i frati ac- corsi veggon, sorretta da due servitori, discendere la figura d’un uomo che mezzo quasi par tra vivo e morto. Riconosciuto e richiesto dal priore che cosa fosse venuto a fare lassù, con occhio sereno e con voce lentissima risponde « A_morire ! ». Oh! la pace di quei sacri silenzj se inonda di tranquillità desiderata noi, curiosi visitatori dell’ asilo ere- mitico, come non dovè rallegrare l’anima del poeta tutta fede in Dio; e che cominciava da quel luogo eminente, con la conversazione di quei devoti padri, la sua conversazione in cielo! Nel ‘56 l'Europa attonita aveva accolta la notizia che il potentissimo Carlo V erasi ritirato nel monastero di San Giusto, sazio di dominio, e desideroso trovar quiete a tanta superbia di comando a volte iniquo, immite ed ambizioso più fiate assai. Ma quei fedeli silenzj, quei claustri taciturni non valsero a cancellare dalla sua memoria le onoranze son- tuose, alle quali era adusato; e nei sogni dell’alba vedeva l’incorrere delle falangi, il fluttuar della battaglia, e gli pareva dallo spirito delle trombe, e dal tintinnire delle armi uscir fuori il grido inneggiante alla vittoria : « Viva l’imperatore ». Non così Torquato : nella silenziosa “ 32 PEL Ill CENTENARIO DI TORQUATO TASSO quiete, che regna in quel mistico asilo di pace, appressando sè al suo desire, così si profonda, che a me par dica a Dio « d’altro non calme ». E con occhi addolorati, e mestamente affettuosi, dai quali raggia un’immortale speranza; e nell’importabile gravezza, che umanamente lo trangoscia, a Dio si raccomanda, perchè temperi l’amaritudine del- l’anima stanca nel dolore. All’alba del 25° giorno di aprile, egli giace in sul letto di morte, intorniato dai pietosi eremiti, che salmeggiano a voce sommessa : già, già gli occhi gli si velano, la benedizione del papa lo conforta, perchè gli apre la via, che lo conduce a Dio; con parole tronche, ma calde, mormora : Nelle tue mani, o Signore.... e spira !! Il trionfo preparato all'arte, non fu che trionfo della morte! La co- rona, per tanto tempo sospesa sulla fronte del divino poeta, fu a suo onore, deposta sul gelido marmo della sepoltura !! HKOGCobA FOMsES5S5O O dell’itale muse onore e meute Salve, o cantor di generosi eroi ! Chi del tuo core, del pensier possente Vincer potrà il fervor degli estri tuoi ? Te di nobili sensi e fede ardente Ria sorte avvolse tra gli artigli suoi E ognor volò di lagrime onorato L’immortale tuo nome, o mio Torquato ! To non so ben ridir se più mi tocchi Triste compianto il core, o riverenza. E se ti miro infante dai ginocchi Della madre divelto, ahi! non è senza Viva pietà che mi si offuscan gli occhi, Membrando all’affannosa dipartenza Quando, fanciullo ancora, il padre errante Seguivi, ihime ! con mal sicure piante ! O pompe, o giostre, o giovanil baldanza, Cavalleresche imprese, e dolci inganni, O rosee larve, o facile speranza Che nutriste l’ardor dei suoi verd’anni, O d’amori innocenti aurea sembianza Respingete da Lui l’onte e gli affanni; Pace un istante, or che l'ingegno ha destro Ai voli, e amore gli si fè maestro ! PEL IN CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Già vitirici di Lepanto le schiere Di nuovi estri accendean l’alma del vate ; Onde sognò duri conflitti, e fiere Turbe infernali, e insidie dispietate, Hi, che le vaghe imprese e l’armi altere Del giovane Rinaldo avea cantate, E tra boschi solinghi e tra pastori, D’Aminta e Silvia i ritrosetti amori ! E del Meonio e di Virgilio il vanto, Con animo d’amor pieno e di fede, S’accinge audace pareggiar nel canto, E per l’arduo cammin securo incede; Ma codarda censura, oliraggi e pianto All’alto genio rende, in vil mercede: Già il lauro si disfoglia ed il potente Ride e non cura il duol dell’innocente ! D’invidia segno, pur cruda fortuna Lo iragge ognora alla fatal Ferrara, Che, per quanto gli sia stanza importuna, Gli è della vita, dell’onor più cara; E, delirando, sul suo capo aduna Di lesa corte la vendetta amara..... Perchè pianse, e di gioje e ardori un carme Ei cantò da eguagliare il suon dell’arme! Ah! quel superbo e nobile intelletto, Ch’era agli affetti più sublimi nato, Doveva errante, in suo valor negletto L'ira soffrir d’inesorabil fato, E un pane mendicar, misero! un tetto Chi d’Armida creava il fasto aurato, E nel bujo languir d'una prigione Il famoso cantor del pio Buglione! Alfin cadono i ceppi, alfin si desta Dall’atro sogno il nobile poeta, E dice: O corti addio: troppo funesta E vana è di fortuna e onor la meta, All’egro spirto altro desio non resta Che in dolce solitudine secreta, Spezzato il core e ogni baldanza audace, Ricuperar la sua perduta pace! PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO O aure devote del convento, O annosa quercia, o supplicati altari, Fra le vostr'ombre, l’animo sgomento Oblio cercava ai mille casi amari..... Ma i crudi ceppi, e il primo suo contento, La gloria infranta, e tanti aspetti cari, Ed Erminia e Tancredi or par che veggia Fra insonni veglie; e palpita e vaneggia. Esulta o Grande !..... Del tuo nome or suona Commossa la città dei sette colli; Ecco, è già pronta trionfal corona, Per te quei canti..... è tuo quel serto.... il tolli.... Egli il respinge, e pallido abbandona Sul letto il viso, e chiude gli occhi molli, E d’astro in astro l’alma radiosa Vola in trionfo, e in grembo a Dio si posa !! Salve o Divino! e d’ogni ria sciagura Pace raccogli e ben mertata palma, Chè se guerra ti fe’ triste ventura, O stupendo intelletto e nobil alma, Eterni fioriran per la futura Età, gli allori all’onorata salma, E pien di gloria ovunque e lagrimato Vivrà sempre il tuo nome o mio Torquato ! Rosalia Majorca Mortillaro TWW.W..iWW.....W.W..W.W.W.W.WWWWW.W.ÌIIWW.W.WW.WW.W.W....W.W......WWWW.....Ò.i....W.W.WWWW ii 2 *SFORCUATOMI:SSO Di Cristo al santo ostello Il pio Goffredo adduce Dei vincenti lo stuol; ancor nel manto Sanguinoso, in devoto Atto, chino adorando, il sommo duce Sul gran sepolcro alfin scioglie il suo voto. Chiudo il volume, e penso... Ecco sorger possenti Vivi fantasmi de le morte cose Già lette, un immenso Amor de l’ideal, meravigliose Querce incantate, e belle combattenti. Odo il flebil lamento D’Erminia pastorella, E il pianto de l’amante Sul viso smorto di Clorinda, e sento La voce degli spirti, e sotto tante Voci diverse, quella del poeta; Che piange e trema, come Ne la stagion più lieta Susurro di viola.... Quale repente da l’effuse chiome, Dal blando volto pio De la vergin morente il giovinetto 38 PEL IIl CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Vide Je sue sciagure, E improvviso martir spezzogli il petto, O nobile poeta, così anch'io Vedo a una tua parola, Una lunga catena di sventure E infinita pietade il cor mi stringe! Di te, mio dolce amico Ne le veglie solinghe, Di te che tanto amasti, Dimmi, quando nemico Ti fu il mondo, e lusinghe Più non avean per te gli amori e i fasti De la corte, ove un giorno Agli occhi giovanetti Il mondo ti sembrò tutto un giardino, D’allori a la tua gloria, Di rose ai tuoi diletti, Ed un verde sentiero al tuo cammino; Dimmi, non rimpiangesti Il bel tempo beato, Quando soavemente a te cantava L’augel d’Armida, e pur tu non cogliesti Tutti i fiori d’aprile Per un bene sognato ? O invan desiata pace De la casa materna, O invan desiato amor de la sorella, Nell'ora che fallace Conoscesti Ja gloria E agli occhi tuoi la morte parve bella! Quando, ingenuo, le porte del futuro, Battevi fiducioso, Perchè una voce della tua Sorrento Non ti rispose ? e non ti rise un puro Amor di giovinetta, un nido ascoso Un nobil core senza mutamento ? PEL IIIT CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Ma può l’aquila fiera Stringer l’ale ad un volo di colomba ? O cercatore di fantasmi, vario Dipinto di mirabil primavera Il tuo cammin sognasti, e il Campidoglio... Ma fiori e allori avesti nella tomba.... Tale è il destin del genio; affascinato Nel castello d’Atlante, Da una voce nascosa, Non vede il volto amato, Ma soave, tremante, Ode un sospir che chiama senza posa; Fin che la scienza di quel cupo sire Che gli umani nomaro disinganno Solve l’incanto in fumo, L’illuso ogni martìre Allor soffre indifeso, Chè la scuola ignorava dell’affanno. O mio povero vate! alcun compenso Non avesti alla lotta Che in cor ti combattea Per eccelso ideal! io mesta penso Quando pietà chiedevi a voce rotta D’un dolore che il mondo non sapea. Quando seduto a la frondosa quercia, Non più Silvia gentile Fra i rami t’arridea; d’umano errore Purgato il canto tuo, e il cor più umile Forse pensavi che da un simil tronco Avean tratta la croce pel Signore? A più severa meta Con l’anima sorgevi, Non i visi di donne e di fanciulle Per cui fosti poeta, Nei tuoi sogni chiedevi Gia la voce segreta del futuro, (35) O PEL III CENTENARIO DI TORQUATO TASSO Ti scendea celeste Dal labbro dello spirto messaggero; A l’alba rosea un turbine di vento Apria la tua finestra, e ne la veste Che ricopre nostr'alma, a te leggero Non su candide ali ei comparia. Era questo il conforto AI tuo lungo soffrire ? Quand’ei posava la sua bella mano Sulla tua fronte stanca di pensiero, Tu sentivi svanire Ogni affetto terren pel solo vero ? Povero core uman! forse pur sempre Un altro cor chiedevi Che vivesse di te; e, dimmi, ormai Tu sei lieto dei cuori Di fanciulle pensose Che ti donaro i primi casti amori ? Tutto è silenzio a te: e ne l’oblio Cadder dolori e gloria !.. Già chiusa in uman velo L’anima, terra e celo Stringere in sè volea... Ora s’'appaga in Dio! Albina Buonpensiere CLASSE DI SCIENZE NATURALI ED ESATTE na {* NUOVA IPOTESI dA O PEL DOVE. DEMIS'TOCLENZONA Lettura fatta il 80 Dicembre 1894 IO Id) IX TTT T_-—T---T--------- ACAVAA VAS br ERRENODRO Varie ipotesi furono emesse per ispiegare il fenomeno del terre- moto; tutte però possono riassumersi colle parole che il terremoto è prodotto da frane, da fratture o da scivolamenti di strati, fenomeni tutti, che accadono o possono accadere nell’interno della terra. Senza negare che il terremoto possa avere, abbia, od abbia avuta, qualche volta, nei varii tempi questa causa, si deve tuttavia confessare che con queste ipotesi non si spiegano tutti i fenomeni che presentano i terremoti; l’ ipotesi che io mi permetto presentare a questa illustre Accademia, mi sembra che possa invece tutto spiegare. Per bene sviluppare il mio concetto, mi giova ricordare alcune notizie che brevemente esporrò. 1°. È altamente probabile che in origine la terra sia stata liquida, e che abbia assunto la forma attuale, quasi sferica, essendo sospesa nello spazio. Essendo liquida e sferica i materiali varii di cui è composta si sa- ranno disposti in ordine di densità, i più pesanti al centro, i più leggeri alla superficie, cioè : l’assieme di tutta la Terra deve presentare una certa omogeneità e si può concludere non esservi ragione p. e. perchè i due emisferi abbiano peso e densità differente. 2°. Osservando la superficie terrestre noi vediamo una grande disu- guaglianza nella distribuzione delle terre e dei mari, anzi possiamo dire che l’emisfero nord è un’emisfero di terre, quello del sud un emi- sfero di mari. Data l'eccedenza delle terre ed il loro maggior peso, è 4 I TERREMOTI naturale la conclusione che 1’ emisfero nord pesi più del sud, cioé : che il centro di gravità del mondo sia nell’emisfero nord. Il maggior peso dell’emisfero nord potrebbe essere contrabilanciato da una maggiore densità dell’ emisfero sud, ciò può essere poco probabile (n. 1); po- trebbe essere bilanciato da un altissimo continente attorno al polo sud, cosa che non è provata; un continente anche della elevazione media di 1000 metri, data la probabile sua massima estensione, non sarebbe sufficiente; oppure può essere equilibrato dall’esistenza di enormi vani esistenti al di sotto dei continenti del nord. 3°. Non voglio entrare nelle discussioni relative allo stato interno della terra, se cioè, sia essa solida o fusa; credo però di poter in ogni modo escludere, come impossibile, 1’ ipotesi che tutto l’ interno della terra sia liquido tranne una crosta dello spessore di 20 o 30 chilometri; si oppongono a ciò varii fatti; fra cui il più importante il valore attuale della precessione. Non si può tuttavia escludere in modo assoluto che l'interno della terra non possa essere in uno stato fuso; ma volendolo ammettere si deve relegare detto fluido verso il centro, cioè a 4 mila chilometri di profondità se non più : quindi a distanza tale da non po- tere essere causa di vulcani o terremoti. Escluderei quindi come causa di terremoto una possibile marea interna, a meno che non si tratti di marea nella compagine solida, o in qualche mare acqueo interno. 4°. Studi sulla gravità, fatti in pieno oceano, hanno indicato che essa sarebbe ivi più grande che sui continenti; ciò può permettere varie supposizioni fra cui la più accettabile, sarebbe 1’ esistenza di enormi vuoti sotto i continenti; dico enormi, perchè non si confondano con le ordinarie caverne che tutti ammettono esistere, senza dubbio, nel sottosuolo. Le caverne, i vani, le spelonche esistenti dovrebbero es- sere forse vaste come la Sicilia come l’ Italia, e alte anche qualche chilometro ; nella compagine terrestre di tali caverne ve ne possono essere varie e sovrapposte. Del resto caverne grandi come l’Italia e alte 5 o 6 chilometri sono ben poca cosa al confronto della massa ter- restre. I franamenti totali o parziali delle volte di dette caverne pos- sono dare ragione di molti fatti tellurici, ma io non voglio entrare in argomento che quel tanto che basti per trovare la ragione del terre- moto; nè intendo, benchè non voglia escluderlo, dire che le frane delle volte dalle caverne sieno la causa dei terremoti, cosa del resto discussa ed accettata da molti. 5°. Una piramide di Egitto è sufficiente a dare una deviazione della verticale ; eppure studi fatti lungo le coste dei continenti mostrarono spesso deviazioni opposta; montagne dell’importanza del Chimborazo e I TERREMOTI Ò più ancora della catena dell’ Imalaja mostrarono risultati contraddi- tori (1). L'ipotesi di enormi vani esistenti sia sotto il Chimborazo, sia nelle viscere dei colossi asiatici giustificherebbe le anomalie. Le deviazioni contrarie alla legge di gravità, osservata lungo le coste, fece emettere al Faye l’ipotesi che la crosta solida terrestre sotto gli oceani fosse più spessa che sotto i continenti; ma questa ipotesi nel caso della massa interna liquida non avrebbe valore, il meno di terra es- sendo compensato col più di liquido; nel caso della terra pressochè com- pletamente solida l’ ipotesi del Faye cade in quelle dell’ esistenza di enormi vani sub-continentali. Ritenendo pertanto sufficientemente pro- vato l’esistenza di enormi caverne, passiamo all’ esame del fenomeno del Terremoto. 6°. È difficile poter riassumere tutti i fenomeni relativi al terremoto, però si può dire che dal loro assieme tutti concordano nell’ ammet- tere che esso proviene da un urto più o meno violento, dato a più o meno grande profondità (centro); e questo urto si manifesta alla super- ficie nell’epicentro, con moto sussultorio, ed all’ingiro con moto ondu- latorio e sussultorio. Spesso l’onda sismica si propaga radialmente e spesso linearmente; questo avviene a seconda della natura della roccia e a seconda delle linee di frattura superficiali ; se pertanto resta mi- steriosa la causa dell’urto, la sua propagazione superficiale non è diffi- cile spiegarla nei vari casi. Si ammette ancora per consentimento generale che tanto più forte e più profondo sarà l’urto, tante più grande sarà l’area scossa. I terremoti possono avvenire in tutte le località terrestri, ma vi sono luoghi disgraziatamente troppo favoriti. Quello però che desidero si rimarchi fino da ora, sono i fenomeni | elettro-magnetici che precedono ed accompagnano i terremoti, fenomeni poco spiegabili coll’ipotesi delle frane e delle fratture, ed ancora desi- dero che si rimarchi il fatto di rumori sotterranei intensi e di lunga durata non seguiti da scosse; se si può comprendere che frane e frat- ture possano dare scosse (tremolii di suolo, non urti) e rumori, difficil- mente può comprendersi come possano dare rumori senza scosse. 7°. Passiamo ora a ricordare alcunchè relativo ai vulcani. Un vulcano è fenomeno minimo al confronto di tutta la terra, ma è capace di com- muovere tutta la terra. L’esplosione del Krakatoa commosse il mare (1) Il PrzzettI in un recente lavoro sulle determinazioni della gravità a pag. 11 conclude : 3° i risultati di esse (osservazioni) tuttavia dimostrano che è necessario ammet- tere che qualche cosa attenua o forse annulla l’azione delle masse continentali. 6 I TERREMOTI e l’ aria dell’ intero globo. I vulcani hanno, per generale consenso, la fase Pliniana, la Stromboliana e quella di solfatara; le eruzioni pro- ducono rumori e terremoti; le eruzioni avvengono o nel cratere centrale o in crateri situati sopra fratture laterali, nel qual caso più bocche possono successivamente essere attive, mostrando quindi un certo spo- stamento dal centro eruttivo. Nel gigantesco pino della fase pliniana abbiamo potenti scariche elettriche e l’eruzione è spesso accompagnata da uragani speciali, che diconsi uragani vulcanici. Abbiamo certamente vulcani sub-marini, molti fatti ed osservazioni lo provano, ed è altamente probabile che il maremoto che si presenta spesso solo, e qualche volta insieme ai terremoti, sia dovuto ad eru- zioni, esplosioni o a sventramenti di vulcani sub-marini. 8°. Il rumore che accompagna il terremoto è stato parogonato al tuono, alla folgore, al muggito del mare, a scariche di artiglieria, a carri carichi di ferro scorrenti per le vie, si potrebbe riunire tutto ciò dicendo che : il rumore del terremoto è molto analogo a quello delle eruzioni vulcaniche. Rumori sotterranei, come di ribollimenti pre- cedono qualche volta i terremoti e rumori sotterranei analoghi pre- cedono le eruzioni. Dopo una grande scossa ne seguono spesso altre minori, ed il feno- meno va mano mano calmandosi; una grande esplosione vulcanica può essere seguita da altre minori. Spesso una grande scossa è l’era di un lungo periodo sismico con interruzioni e riprese; il Monte Somma esplose e diede luogo al periòdo vesuviano. Nei terremoti si manifesta spesso una certa tendenza al periodo e così pure si manifesta in alcuni vulcani. Vi sono località continuamente scosse da terremoti, vi sono vulcani sempre in eruzione come lo Stromboli. In conclusione da qualunque lato si esamini il fenomeno del terre- moto, in esso si riscontrerà sempre delle analogie di decorso col feno- meno vulcanico. 9°. Prima dello scoppio di un temporale gli animali si mostrano tur- bati e tutti cercano rifugio; vi è nell’aria qualche cosa che si sente e non si sa esprimere e che dicesi afa di temporale; questo fatto, secondo me , è dovuto a mutamento dello stato elettrico; precedentemente ad un terremoto gli animali si mostrano inquieti ; perturbazioni magneto elettriche furono da molti constatate durante periodi sismici ; prece- dentemente al terremoto vi è qualche cosa di mutato che ne circonda e che dicesi afa di terremoto ; tutto ciò che precede ed accompagna .I TERREMOTI ri il terremoto ha delle analogie con ciò che precede ed accompagna il temporale, il terrore stesso che si prova durante il terremoto è qualche cosa di più e di differente della semplice paura della morte; è piuttosto una profonda alterazione del sistema nervoso prodotta certamente da mutate condizioni elettriche; senza entrare in altre particolarità si può asserire che, durante i periodi di attività sismica, vi è qualche cosa di mutato nelle condizioni elettriche della regione. Conclusione Si rammentino ora le grandi caverne, si rammentino i fenomeni vul- canici, con gli uragani vulcanici prodotti dalle eruzioni; si rammenti l’urto dato nel sottosuolo; urto che si trasmette all’epicentro in forma di sussulto; si rammentino i fenomeni elettrici e sarà facile concludere che se esistono vulcani sub-aerei, se esistono vulcani sub-marini che danno il maremoto, possono esistere vulcani sub-terrestri le di cui esplo- sioni ed eruzioni daranno il terremoto. Ammettendo l’ipotesi che nelle grandi caverne, prima dette, esistano vulcani, non sarà difficile trovare la spiegazione di tutti i fenomeni che accompagnano il terremoto ed anche dei terremoti microscopici. Le esplosioni daranno l’ urto sotto la volta della caverna e questo urto si propagherà, come si è detto, dando origine al terremoto ; an- che nelle sotterranee eruzioni avremo l’uragano con tuoni e fulmini; inoltre nel vulcano sub-terrestre avremo una gigantesca macchina d’Armstrong nella quale funzionerà da conduttore la volta della ca- verna, di qui l’origine di tutti i fenomeni sismoelettrici; i rumori senza scosse saranno prodotti da esplosioni che non arrivano a colpire la volta della caverna. Con tutto ciò non voglio negare, come già dissi, che in varii luoghi scosse di minore importanza per estensione sieno prodotte da frane, da fratture o da scivolamenti di strati; certamente però questo non deve essere il caso dei terremoti in Italia, nel Giappone e nell’ Ame- rica centrale; come neppure può essere questo il caso del terremoto di Lisbona. Dato che il terremoto ultimo, ed in generale tutti i terremoti di Calabria, sieno p. e. prodotti da un vulcano sub-terrestre, non sarà difficile studiarlo, rendendo cosi un servigio all’umanità ed alla scienza. MOT a ‘(Tasto rada pi gergrgginit: LATE re e eri Lod Livi die atti ron fato al Aoc NE aloni a Fa gino Pani 9095" csc8bla Soi e è, seria agio > SA A I ani ci Dir ivi dle 6 prioni, sanno MSI i ue ini Lane Cosoé.: ui aiar Af STRA E Mi poli di rn: stia pra) af zo nos io a Sl ent ri a Abe SIAMO 0a 0 ce A+ asia tiogaiti 0 Ms. ata vero Gpnfpapizio ario» 3 Bilal irrita d a ‘ut Pao dpnttagoginia» iso CURE di Reairta) toh dRT Rrsino Vale Mi.) cinte a ap: 1 visto (ig 1 AMan an i e 153 “i eee Mpa enrica s igoi fanti dl Ponto vos LS dcistoliig ct nix ber; Magie” 2772000 cone o cm lang ablottttb . » È ni sd Ue IT nti a st 4 E. 1h n ia PSR Pros (o di Nea i Po «pira si uva e è i RN + PESO i en a aa; È è di SULL ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMAL MEDIANTE SPECIALI PARAMETRI IHINgAaDotr E SOLER SO) PYDL._ °_° ____£9© << _TT- A--NAD3=-- SULL'ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMALI MEDIANTE SPECIALI PARAMETRI dl È noto che il Weingarten dedusse dalle superfici minimali una nuova classe di superfici applicabili l’una sulla altra # avvalendosi degli speciali parametri p, 9, tra cui il primo rappresenta la distanza dal- l’origine delle coordinate al piano tangente in un punto P della super- ficie; e q la distanza dell’origine al punto stesso. Tali parametri sono analiticamente determinati dalle relazioni (1) p=Xx+Yy+Zz o=ax +4 2° dove xyz sono le coordinate rettangolari del punto P; ed X, Y, Z le coordinate della immagine di P sulla sfera di Gauss, espresse mediante i soliti parametri «, v. Ci proponghiamo in questa nota di ricercare se sia possibile espri- mere l’elemento lineare di una superficie minimale qualunque mediante i parametri p, q. Partiamo dalle relazioni fondamentali delle superfici : ** 0X_FD'_GD?w FD_ED'?a ap EG=F% dpi \EG=F? 09 OX _ FD'—GD' DO ED ED" dx dq n EG—-EF: ap EGLI? 9dq * Cfr. WEINGARTEN : Eine Neue Classe auf einander abwickelbarer Flichen (Na- chrichten von der K. Gesellschalft der Wissenschaften zu Gottingen, 1887). ## Cfr. L. BrancHI: Lezioni di Geometria Differenziale, Pisa, 1894: pag. 89. 4 SULL’ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMALI ed analoghe in Y, Z; dove i coefficenti della prima e seconda forma fondamentale della superficie si intendono già espressi nei parametri p, 9. IRAN da de Risolvendo le precedenti rispetto a ” x e tenendo conto dell’al- tra relazione fondamentale : DAI EGIZIO i 6) dove e, indicano i raggi principali di curvatura nel punto P, si ot- tiene : ( III III dpr GSi, Ip DI ESP 99 (4) de ___,GD'—FD"èX, ,FD'_GD23X ag ge gp gen Gg ed analoghe per y,z Considerando ancora le seguenti : 300 08 2% Crane È pari plan si Rei dp o IN EID4 SICEZA MOSCONI so che si cavano facilmente dalle (1), si deduce, adoperando convenien- temente le (4) e le analoghe in y, FD'_ED"_ VD DEA TR CIE=IIAE EG—-F® (6) RO IZGIOÀ > Sulle superfici minimali in ispecie, dove gare = le precedenti, dopo avervi introdotta la (3), divengono : ; 201 ED:-'ED 1.1 IM) = O 0 Ee=w "1 È @ 10) = IP ID STE =q IDAZSGIDICO DD' — D'? * Cfr. WEINGARTEN, l. c. MEDIANTE SPECIALI PARAMETRI ) Dalle tre prime precedenti si cava: PF G PG S hi DE VISSE (8) q q Eq relazioni notevoli tra i coefficenti della seconda forma fondamentale e quelli della prima, relativamente ad una superficie minimale espressa mediante p e 9g. Accenniamo che le (8) precedenti verificano identicamente la quarta delle (7), ed anche l’altra relazione fondamentale sulle superfici mi- nimali 2FD'-ED'-GD=0 2. Per la determinazione dei coefficenti della prima forma ricorriamo ai tre parametri differenziali A,9 AVIZE v (4, D) Pel primo adoperiamo la formula data dal Bianchi #, la quale fatta ragione delle notazioni, e considerando che essa è calcolata riferendosi alle linee di curvatura di una superficie qualunque, può nel caso nostro scriversiì : I (DN 1 (dg\X &— pe (9) A,gG= ( - = ) =; E G, E, \du cv q° dove con E,, G, abbiamo denotato i coefficenti della prima forma ri- feriti alle linee di curvatura; adoperando le analoghe lettere senza in- dici per denotare i coefficenti espressi mediante p, 9. Avvalendosi delle relazioni fondamentali (2) supposte riferite alle linee di curvatura di una qualunque superficie, e tenendo presenti le identità : si cavano : ID d (ED; (IS vide dal du alli (2) ] Sulle superfici minimali, in ispecie, si ha, supponendole riferite alle linee di curvatura : # Cfr. BrANCHI, l. c. pag. 114. 6 SULL’ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMALI detto ; il valore assoluto comune dei raggi principali di curvatura in un punto delle stesse. Allora, per formule note *, diverrà : D,=+1 DAS Le (9) e (10) divengono quindi : (11) ui = L(4) + (54) ] dove si è supposta la superficie riferita alle linee p = cost, q = cost. Ponendo successivamente nella precedente < = q e è = p, e tenendo presenti le (11), si cava, per le superfici minimali : E q — p EG—-FP° q (2) G vaigà== pi BG dalle quali ancora: G= (13) pr NI Ie Cal dI le quali fanno dipendere la determinazione dei tre coefficenti della prima forma da quella del solo £. 3. A tal uopo proponiamoci di determinare i parametri relativi alle # Cfr. BIANCHI, l. c., pag. 101. *# Cfr. BIANCHI, l. c. pag. 66. MEDIANTE SPECIALI PARAMETRI 7 linee di curvatura di una superficie minimale, supponendola riferita alle linee p = cost, q = cost. L'elemento lineare, in tal caso, avrà la forma: (14) dst= Edp°>+2Fdpdq+Gdq e l’equazione differenziale delle linee di curvatura sarà data da : (19) (ED'—FD)dp+ ED"-GD)dpdq+(FD'-—GD')dq=0 la quale, introducendovi le (10) e le (13), diviene: dalla quale (16) dp+-aq=0 proprietà avverantesi lungo le linee di curvatura, e ritrovata per altra via dal Darboux #. Dicendo ), vi fattori integranti delle (16), ed « e © i parametri re- lativi alle linee di curvatura della superficie, si ha : DI (ap+£ da) =idiu (17) n O ì - «(dp — 2 da)=do Considerando adesso che l’ elemento lineare di una superficie mini- male riferita alle sue linee di curvatura è dato dalla: (18) dst= (du +dèW) # si ottiene , introducendovi le (17), ed eguagliando la espressione così ricavata colla (14) : (19) F=2902— w) (Ci i (2° + pè) [o) î #* Cfr. DARBOUX: Lecons sur la theorie des surfaces. T. IV, pag. 315. ** Cfr. BraNncHI:l. c., pag. 239-240. 8 SULL’ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMALI Confrontando la prima con la terza si deduce la relazione già nota tra G ed E; confrontando invece la prima colla seconda se ne ricavano le seguenti espressioni per ) e w ) = VE (2 E, “Ve è) a) (20) Wae E, —VERZAa o) dove si è posto per semplificare le formule : J}= toa (21) P=E VE — a a = DI È DI Quc=pPg Le equazioni a derivate parziali cui debbono soddisfare i fattori in- tegranti, assumono dunque la forma : 5 Vesna A E oE4VE = 3p e OR Ip e —Viea-ve=a= GE -VE?=#) dove si assumono come funzioni incognite £, e e. Il problema propostoci nel $ 1 viene a dipendere, in generale dalla integrazione del sistema precedente. La determinazione di speciali funzioni £, e g, che lo soddisfino , ci darebbe delle classi di superfici minimali interamente esprimibili me- diante p e q. 4. Ad altro sistema a derivate parziali si giungerebbe proponendosi la determinazione dei parametri delle linee assintotiche delle superfici minimali, supposte sempre riferite ai due parametri p, g. In tal caso la equazione differenziale delle assintotiche è data da: Ddp+2D'dpdq+D"dqg =0 dalla quale, introducendo le (8), (13) e facendo le posizioni (21), si cava : Upi VIE + dg PR VTIES (24) dp... (GMES VE Vas MEDIANTE SPECIALI PARAMETRI 9 le quali mostrano che lungo le assintotiche ha luogo la stessa pro- prietà segnalata colla formula (16) lungo le linee di curvatura della superficie minimale. Dalle precedenti si cava, dicendo ) e w i fattori integranti ed «, © i parametri relativi alle assintotiche : LI (VE « dp+ 23 VE,+ dq)=du © o 24) Y (va x dp+ sa VE, — da) == Teniamo presente che l’elemento lineare delle minimali riferite alle linee assintotiche mantiene la forma (18) #; sostituendo quindi in esso per du, dv i valori dati dalle precedenti (24), e confrontando colla forma (14) dello stesso elemento lineare espresso mediante p, g, si giunge alle seguenti : Ch =? [oe anto aree 10) | (25) Fi=gVEf—= a 024) = |E0'+v)—:—-»)] Dal paragone della prima colla terza, tenendo presente la prima delle (13), si cava: E} — Ù G=2ap(u — XxX) =0 e quindi, considerando i valori assoluti dei fattori integranti, si può porre : = l Le (25) si riducono allora alle seguenti : # Cfr, BrancAI :1]. e. pag. 124 10 SULL’ESPRESSIONE DELLE SUPERFICI MINIMALI ricaviamo i dalla prima, e, considerando lo scopo cui esso serve, possiamo tenere : @7) = pia Introducendolo nelle (24), i primi membri di essi divengono dei dif- ferenziali esatti, e danno luogo alle seguenti : CR VA CA I È ES | sab ° Pipa lito ? È ve (CLS di VE (E, — 2) °gl 5 DESIRE e Per questo sistema, considerando come funzioni incognite £, e e, pos- sono ripetersi le stesse osservazioni che sul sistema (22). Riserbiamo ad altra nota lo studio dei sistemi (22), (28). 22). Palermo, 1896. SU TALUNE SUPERFICI CONNESSE AD UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA PER L'Ing. Dott. E. SOLER SU TALUNE SUPERFICI CONNESSE AD UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA DN 1. Ci proponghiamo di presentare delle formule relative a delle su- propons perfici connesse alla superficie S, deformata della sfera, già da noi stu- diata #, e il cui elemento lineare ha la forma (1) ds = du + Kk° cossud dove « è il parametro relativo ai meridiani, v quello relativo ai pa- ralleli e X una costante maggior d’uno. Per dei teoremi noti ** essa può considerarsi come una falda del- l’evoluta di una superficie W, cioè di una superficie i cui raggi prin- cipali di curvatura sono fra loro legati da una relazione gi) = 0 Ed ancora potremo tener presenti che per ogni sistema di geodeti- che (9) scelto sulla falda dell’evoluta in quistione, si ha un sistema oo* di rette tangenti alle stesse, che riescono mormali ad una, e quindi ad infinite superfici (parallele) appartenenti alla classe W, lungo le linee di curvatura delle medesime ***. # Cfr. E. SoLER: Sopra una certa deformata della sfera. (Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo. T. VIII). #* Cfr. L. BrancHI: Lezioni di Geometria Differenziale. (Pisa 1894), pag. 298. ##£ Cfr. L. BrancHI: 1. c. pag. 223, 237. + SU TALUNE SUPERFICI CONNESSE Ciò posto, consideriamo sulla superficie (1) il sistema (g) di geode- tiche formato dai meridiani, e ci proponghiamo , in primo luogo , di determinare una delle superfici W, evolventi della .S, appartenenti al sistema relativo alle geodetiche prescelte. Tenendo ancora la superficie S come prima falda della evoluta della W cercata, ed essendo essa, secondo la (1), riferita ai meridiani e alle loro traettorie ortogonali, avremo per uno dei raggi di curvatura del sistema di evolventi accennato : (2) r, =u-+ cost Supponendo la cost = 0, e tenendo quindi : ‘DI Eu avremo una speciale superficie evolvente W, relativa al sistema (9g) dei meridiani della .S, e precisamente quella superficie di rotazione che ammette per linea meridiana la evolvente della linea meridiana della $, ottenuta cominciando lo sviluppo dall'origine dell’arco della curva me- ridiana anzidetta. Ancora, considerando che il raggio di curvatura geodetica delle 7,= cost sulla S è sì deduce per l’altro raggio principale di curvatura in un punto della W (4) rv, =u-+ cotgu 2. Le due relazioni (3) (4) si possono ottenere per via analitica, pa- ragonando cioè l'elemento (1) della .S colla forma che esso assume ri- guardando la S come prima falda della evoluta di una superficie W, cioè colla gi fdr I (9) dsf=dr}+e da dove 7, ed 7, sono i raggi di curvatura principali della evolvente. Dal confronto della (5) colla (1) si cava difatti immediatamente ver {9 ) PEPE AD UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA >) ed ancora do=)du, e = k® cost onde ® dr AR OERI 2 -_ = log 2 4° + 2 log cos u OST da cui: dr i_ = — tgudu rt ed infine, stante la (5’): (5°) ra =u+ cotgu 3. Dalle formule date nella nostra nota sulla superficie S * si cava che i coseni direttori alla S lungo i meridiani (sistema (9) di geodetiche) e quindi le normali -alla W lungo le sue linee di curvatura, son date da : X=—-ksinucos®v (6) Y=—ksinwusinv G=VTESTERTR e quindi, noti mediante le (3) (4) i valori di 7, », in un punto della W, si avranno le coordinate di un punto della stessa mediante le seguenti : (0 GNORZ dZ DARCIIZZAZIO Dalle due prime si cava, con quadrature : x=—kusinucos® (3) y=-—kusinusin® # Cfr. E. SoLeR: Sopra una certa deformata della sfera —$ 4. 6 SU TALUNE SUPERFICI CONNESSE In quanto alla terza, essa, scambiando il senso positivo degli assi, può mettersi sotto la forma: k° usinucosu kè COS? w = i du+ E du VA ITS 27 VASTA sino CAVI ed introducendo le funzioni ellittiche di parametro -, similmente a quanto fecesi nel $ 1 della nostra nota citata, si ha, adoperando i ri- sultati quivi ottenuti: (9) = arccosdnzenc + (tl 22) izo x AIA, ZICD dove XK ed H sono gl’ integrali elittici di prima e di seconda specie; Z (=) la nota funzione di Iacobi, e * il modulo. Essa unita alle (8) completa il sistema delle coordinate richieste , e mostra che la curva meridiana della evolvente determinata W va espres- - sa, similmente a quella della prima falda della evoluta, mediante fun- zioni ellittiche. L’elemento lineare della superficie W in quistione è dato da (10) ds =dw+ ku sinude 4. Ci proponghiamo adesso di determinare I’ elemento lineare della superficie complementare della S, rispetto al sistema di geodetiche meri- diani (g), cioè della 2° falda dell’evoluta già determinata. Consideriamo che tale elemento è in generale espresso da : è 0 9 dry rv, (11) dsf=dr}+e di ma stante la (4) si ha dr, = — cotg°udu e quindi 2 f. dry t,— Tr, e SI — sin’ « e la (11) diviene AD UNA CERTA DEFORMATA DELLA SFERA 7 da cui, adoperando la (3), si ha definitivamente per l’elemento in qui- stione : (13) £ ds = cotgir, dr? + do, 4 5. Confrontando il precedente coll’elemento lineare di una superficie di rotazione, dato sotto la forma : (14) ds=du +r°dw sì può porre du= cotg°r, dr, 1 (15) o=kw pes ksin», e quindi detta 2 l’ ordinata di un punto della curva meridiana della detta superficie complementare, si ha: (_) lr «SVI (CR; (DR ar= {TL vazmeni 7) eJii ove, posto : si ricava e facendo la quadratura col porre 1 (16) X= COS 4 si ottiene (17) z=tgo — 9 che insieme alla (16) precedente definisce Ja curva meridiana della su- perficie complementare in quistione. È notevole il fatto che l’elemento lineare di tale superficie si esprime mediante funzioni circolari con una forma identica a quella con cui l’elemento lineare della complementare della superficie pseudosferica del tipo iperbolico viene espresso mediante funzioni iperboliche. Ed ancora la curva meridiana della superficie stu- diata viene espressa per funzioni circolari, come avviene per la curva meridiana della complementare della pseudosferica anzidetta (trattrice * allungata) *. Palermo, 1895. # Cfr. L. Branchni:1. c. pag. 243. CLaSSE NOS NARA 20 AI0 | o) Lt GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA DESCRITTE DA OBADIA DI BERTINORO ANN -NN5ND0NR°°0A0_P_ Lettura fatta alla R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti il 17 Giugno 1894 CAN. B. LAGUMINA cd TTT -TrAFEFCFAAAACFAAXKNAKAAKAETA= LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA DESCRITTE DA OBADIA DI BERTINORO MAN Corsero oramai quattro secoli dacché la schiatta dei Giudei, dopo lungo e più o men pacifico soggiorno fra noi, fu costretta ad esulare da Palermo e dalla Sicilia tutta. I casi di quella gente, che ebbe vizii e pregi suoi proprii e comuni ai cristiani di Sicilia, furon nel secolo scorso, colla scorta di documenti, narrati da Giovanni Di Giovanni (1), e nel nostro dal Dottor L. Zunz (2) e da Isidoro La Lumia (3). Di essa pur si occuparono ai tempi nostri, di proposito o per incidente, Raffaele Starrabba di Palermo (4), e più recentemente ancora il rabbino M. Gù- demann di Vienna (5). Ma una storia dei Giudei di Sicilia che risponda alle esigenze della cultura storica moderna non è stata scritta, e solo ab- (1) L’Ebraismo della Sicilia ricercato, ed esposto, Palermo, 1748. (2) Geschichte der Juden in Sicilien; nell’ opera: Zur Geschichte und Literatur, pag. 484 e seg. Berlin, 1845. (3) Gli Ebrei Siciliani; negli Studi di Storie Siciliane, Vol. II, Palermo, 1570. (4) Di un documento riguardante la Giudaica di Palermo ; nell’ Arch. Stor. Sic. Anno I, pag. 89, Palermo 1873. — Transazione tra il Comune e la Giudaica di Pa- termo del 2 nov. 1491; nell’ Arch. Stor. Ste. N. S.a.I, pag. 454, Pal. 1876.— Guglielmo Raimondo Moncada ebreo convertito siciliano del secolo XV; nell’Arch. Stor. Sic. N. S. a. III, pag. 15, Pal. 1878. (5) Geschichte des Erziehungswesens und der Cultur der Juden in Italien, pag. 268 e segg. Wien, 1884. 4 LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA biamo molti elementi a compilarla, i quali mio fratello Sac. Giuseppe ed io abbiamo raccolti nei due volumi del Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia, pubblicati per cura della Società siciliana di Storia Patria (1): ai quali due volumi ben presto terrà dietro un terzo, nel quale si com- prenderanno gli atti che si riferiscono alla loro espulsione dalla Si- cilia. In attesa pertanto che la storia dello Ebraismo della Sicilia , già abbozzata dal Di Giovanni e dagli altri che di lui si servirono, possa essere rifatta, credo che non sia discaro dar notizia di un documento di capitale importanza, il quale, benchè pubblicato in Germania più di trentanni addietro e largamente citato dal Graetz nell’ottavo volume della sua Sforia dei Giudeìi (2), è sfuggito non solo al La Lumia e allo Starrabba, ma ancora al Perreau, che tradusse colla sua ben nota com- petenza la Storia dello Zunz (3), e allo stesso rabbino Giidemann citato più sopra. Il documento a cui alludo è compreso in una lettera del rabbino Obadia di Bertinoro, nella quale descrivendo a suo padre tutti i luoghi che visitò nel viaggio che fece dalle Romagne a Gerusalemme, ebbe occasione di ragionare a lungo delle giudaiche di Palermo e di Messina, ove dimorò dal 13 luglio 1487 al 28 ottobre dello stesso anno, cinque anni appunto prima che i Giudei fossero espulsi dalla Sicilia. La lettera del Bertinoro colla data di Gerusalemme delli 8 Elùl 248 (15 agosto 1488), insieme ad una seconda pur da Gerusalemme del 27 Elùl 249 (24 agosto 1489) diretta al fratello che si trovava in Ro- magna, fu la prima volta pubblicata nel testo originale ebraico da Se- nior Sachs con una traduzione tedesca di Adolf Neubauer nel terzo volume del Juhrbuch fiir die Geschichte der Juden und des Judenthwns, Leipzig, 1863, da un manoscritto acquistato da Uri Ginzburg di Parigi. La quale edizione fu severamente giudicata da Steinschneider nella He- braeische Bibliographie, Vol. VI, pag. 130, Berlin, 1863, facendo notare come molte lezioni fossero state erratamente trascritte dal testo e molti luoghi fossero stati mal compresi nella traduzione. Ma già fin dal 1859 Marco Mortara rabbino maggiore di Mantova avea scoperto, non so dove, le due lettere del Bertinoro (4), delle quali un anno appresso, nel 1860, avea mandato copia, con buone osservazioni, allo Steinschnei- der, per essere edita nella Hebraeizsche Bibliographie. Il quale lavoro del Mortara era stato rimandato a miglior tempo, avendo D. Luzzatto sco- (1) Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia, Vol. I e II, Palermo, 18S4 e 1890. (2) Geschichte der Juden VIII*, pag. 245, 249, Leipzig, 1$75. (3) Nell’Arch. Sfor. Stc. N. S. a. IV, pag. 69 e segg. Pal. 1879. (4) Hebr. Bibl. II, 21. LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA ) perto nei manoscritti della Biblioteca del fu Giuseppe Almanzi un testo migliore delle precitate due lettere insieme ad una terza che, a quanto ne so, sinora è rimasta inedita (1). Una traduzione francese delle prime due lettere bertinoriane diede Moise Schwab ne) giornale Zes Archives Israelites, Paris 1866; ma questa non andò immune degli errori notati nella prima edizione ebraico-te- desca del Neubauer e del Sachs, di cui come di base si servi lo Sch- wab. Della quale traduzione non si trova cenno nella Hebraische Biblio graphie, essendone stata in quel tempo sospesa la pubblicazione. Trovo sì nel volume XIII della detta Bibliografia ebraica, pag. 124 fasc. nov. dic. 1873, altre correzioni dello Steinschneider al testo ebraico già edito delle due lettere del Bertinoro, in occasione della rivista di una tra- duzione inglese di alcuni squarci delle sopradette due lettere, comparsa nella Miscellany of Hebrew Literature, Vol. I, London, 1872. Queste sono le notizie bibliografiche delle lettere di Obadia di Ber- tinoro (2). Ma chi fu egli mai? perchè venne nell’isola nostra ? A queste legittime domande procureremo di dare risposta. Fiori Obadia di Bertinoro negli ultimi decenni del secolo XV e nei primi del XVI; rimanendo incerti gli anni sì della nascita che della morte di lui. Il Wolfio (3), e dopo di lui il First (4), seguendo Gedalia b. Jachiel (5), il fanno morire l’anno 1580; ma in quest'anno secondo David Conforte (6) era morto da un pezzo; onde lo Steinschneider ne assegna la morte fra il 1500 e il 1510 (7). Comunemente è conosciuto col nome del suo paese di origine « Bertinoro » della provincia di Forlì; ma nelle sue lettere si soscrive « Jarè, » sia che questo sia stato il suo vero cognome, quale occorre anche adesso in famiglie israelite d’Italia, sia che egli se l’abbia adottato per fare allusione al testo del I dei Re XVII, 3, come osserva il Luzzatto (8). Comunque sia, 1 identità di Obadia di Bertinoro con Obadia Jarè è accertata; il che, dopo altri, fu dimostrato Da Moise Schwab nel periodico Les Archives Israelites , dinanzi citato. (1) Bibliothéque de few Joseph Almanzi N. 183 II, nella Hebr. Bibl. V, 101. (2) Cfr. Ben Jacos, Ozar ha-Sepharim, N. 193, Wilna, 1880. (3) Bibliotheca Hebraica, I, pag. 938, n. 1761. (4) Bibliotheca Hebraica. (5) Catena traditionis, f. 30 ed. Amst. (6) Korè ad Doroth, f. 30. (7) Catalogus Bibliothecae Bodlejanae, pag. 2073, N. 6655. Cfr. GraETz, Geschichte der Juden VIII, pag. 248, e MortaRA, Indice alfabetico dei rabbini e scrittori israe- liti in Italia, pag. 8, Padova, 1866. (8) Hebr. Bibl. V, 145. 6 LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA Che egli avesse passati gli ultimi anni della sua vita in Gerusalemme, e fosse ivi morto, già si sapeva; ma ora dalla prima delle sue lettere puossi rilevare che abitava a Città di Castello, da dove parti il 9 no- vembre del 1486; finchè passando di Roma, Napoli e Salerno, e poi di Pa- lermo, Messina, Rodi, Alessandria e Cairo pervenne nella città santa addì 25 marzo del 1488 (13 nisan 5428). Mettendosi in istretto rapporto coi Giudei dei vari luoghi che andava visitando, ne descrisse le con- dizioni sociali e le diverse costumanze, specialmente di quei di Geru- salemme, dove compose il suo comentario alla Mischna pubblicato più volte ; comentario che aveva cominciato in Italia, e che lo rese assai rinomato frai suoi correligionarî. Scrisse pure un comentario al co- mento del Pentateuco di Raschi, edito a Pisa nel 1810; ma non possono attribuirsi a lui un comentario a Ruth (1), edito pur esso, e un trat- tato cabalistico che è rimasto manoscritto (2). Or tale erudito rabbino, per una ragione di ordine generale, che ora spiegherò, fu indotto a recarsi a Palermo nel 1487. I giudei d’ Italia, e forse di altre regioni, a causa di certa rappresaglia dei cristiani, per molti anni del secolo XV, non poterono andare in Terra Santa se non con grandi difficoltà. Ma intorno a ciò sentiamo lo stesso Obadia di Ber- tinoro, il quale così scrive nelle prime delle sue due lettere : « Sul monte Sionne in vicinanza alle tombe dei Re i monaci di San « Francesco hanno una gran Chiesa e per addietro anco le tombe dei Re loro appartenevano. Un ricco ebreo tedesco venuto a Gerusalemme, « volendo farne l’acquisto, ne nacquero contese coi monaci, e da allora «innanzi gli Arabi s’impadronirono di quelle tombe, ed anco al pre- « sente sono in potestà loro. Pervenuta a Venezia la notizia le tombe «reali essere state tolte ai Cristiani, a cagione degli Ebrei di occidente, « fu deliberato di non più accordare il passaggio a quelli che si recas- « sero in Gerusalemme per le terre della Repubblica veneta. Questo di- « vieto ora è cessato, ed ogni anno giungono Ebrei sopra galee vene- «ziane, nè v’ ha tragitto più sicuro e più breve di questo, giacchè le « galee consumano al più 40 giorni nel viaggio da Venezia insino qui » (3). SI (1) Questo comentario la prima volta fu stampato a Cracovia sine loco et anno. Cfr. Ozar ha-Sepharim, N. 586. Fu scritto da Obadia Hamon della stessa famiglia di Obadia Jarè col quale generalmente fu confuso; StEINSCHNEIDER, Cut. lib. Bibl. Bodl. N. 6686. (2) Trattato cabalistico composto l’anno 5326-1567 da Obadia Hamon; trovasi alla Bo- dlejana. NEUBAUER, Catalogue of the Hebr. Manus. in the Bodl. Tibe., Ni. 15975; Oxford, 1886. (3) M. LammEs, Di un divieto fatto dalla Repubblica Veneta ai pellegrini ebrei di i Palestina; nell'Archivio Veneto, t. V, 98, Venezia, 1875. LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA 7 Tale divieto fatto ai Giudei di andare in Palestina è confermato da Isac Zarfati, il quale aggiunge, forse esagerando, che ai Cristiani era stato prescritto di gittare a mare i Giudei i quali si trovassero nelle navi in viaggio per Gerusalemme (1). I documenti di parte cristiana chiariscono le notizie date dal Ber- tinoro. Sul quale proposito è da ricordare come i Francescani si tro- vassero in possesso del Santo Sepolcro e del monte Sion, del Cenacolo cioè e dei luoghi annessi, probabilmente sin dal 1313, quando il re Ro- berto e Ja regina Sancia di Napoli, con grandi spese e fatiche li eb- bero regolarmente concessi dal Sultano di Egitto. Presso il Cenacolo la regina Sancia fabbricò un convento dove dovessero dimorare dodici frati minori; le quali cose tutte son ricordate nella bolla di conferma di Clemente VI del mese di novembre 1342. Or è da sapere che il così detto sepolero di David formava, e forma ancora parte del luogo dove, secondo la tradizione, Gesù Cristo cenò l’ ultima volta coi suoi disce- poli, e dove apparve loro dopo la sua risurrezione. Perchè quel santuario, anche secondo la descrizione che ne è data dal Quaresmio nel 1634 (2), è diviso in due piani: nell’ inferiore, un primo vano dinota il luogo dove Cristo lavò i piedi agli Apostoli, un secondo è precisamente quel che è chiamato il sepolcro dei Re o di David. Nel superiore v’ha pure due vani: nel primo discese lo Spirito Santo, nel secondo Cristo cenò cogli Apostoli; sicchè il sepolero di David risponde precisamente sotto il Cenacolo. Or codesti luoghi furon legittimamente acquistati, come abbiam detto, dai frati minori sin dai primi anni del secolo XIII, e da lor posseduti sino al secolo XVI, quando venner loro fino ad oggi strap- pati. Dissi posseduti, nel modo s'intende come si potea in quei tempi; in una paese dominato da musulmani molto più fanatici di ora, e per giunta, a varie riprese, molestati dai cristiani. Onde è che nel 1365 il Santo Sepolcro e il luogo del monte Sion dopo la disastrosa impresa di Alessandria, furon invasi dai musulmani (3), e i frati non ci poteron ritornare se non mel 1370, per intercessione sopra tutto del Re di Cipro e della Repubblica di Venezia (4). Più tardi rottasi la pace fra i cristiani e i musulmani, e invasa nel 1426 l’isola di Cipro dagli (1) Cfr. Graetz, Geschichte der Juden, VIII® pag. 211 e VI pag. 424. (2) Historica theologica et moralis Terrae Sanctae Elucidatio, Vol. II, pag. 96, Ve- netiis, 1882. (3) BernarDINO DA Civezza, Storia Universale delle Missioni Francescane, Vol. IV, pag. 43. (4) Da Civezza, Op. cit. Vol. IV, pag. 281. (K9) S LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA Egiziani, le condizioni dei cristiani di Oriente si ridussero a mal punto; furon revocati i privilegi dianzi concessi, e sospesi i devoti pellegri- naggi in Palestina. Fu allora, e certo nel 14257, che profittando i giudei dell’odio feroce eccitatosi nei Saraceni contro i cristiani, indussero quelli a scacciare i frati minori dal monte Sion, e colsero il destro di acquistare il sepolcro di David. E se i medesimi frati poteron riavere quei santi luoghi, ciò non fu che per le pratiche secrete fatte col Sultano al Cairo, per mezzo di buona quantità di danari a tal fine chiesta ed avuta dal Pontefice Martino V e dalla Regina Giovanna II di Napoli (1). A quest’ epoca si riconducono le notizie forniteci dal Bertinoro ; il quale ci ragguaglia come un ricco giudeo tedesco fu appunto che volea fare acquisto delle tombe del Re. Ma da quel che ei dice che « nel « monte Sion i monaci di San Francesco hanno una gran chiesa e per «addietro anche le tombe dei Re », e da quel che soggiunge che « d’al- «lora innanzi gli Arabi s’ impadronirono di quelle tombe ed anco al « presente (cioè nel 1458) sono in potestà loro », chiaramente si argui- sce che se i frati poterono riacquistare la chiesa del Cenacolo, non ven- nero più in possesso del sepolero di David che rimase in mano dei Mu- sulmani. Le quali contese dei giudei coi frati minori suscitarono una . forte reazione contro i giudei di occidente e mossero tutto lo zelo di Martino V, il quale sotto pena di scomunica proibi ai cristiani di dar passaggio nelle loro navi a quanti giudei volessero andare in Palestina; disposizione confermata dalla repubblica veneta, la quale contro i tra- sgressori ad altre pene aggiunse quella di ducati 100, come può ve- dersi dall’atto del 4 giugno 1428 scoperto da Mosè Lattes e pubblicato nell'Archivio Veneto (2). La regina Giovanna II di Napoli non è dubbio che dovette pur essa fare eseguire nel suo stato la bolla pontificia ; e per rivalersi delle somme che avea versate, onde i frati riavessero le loro antiche possessioni, impose a ciascun giudeo del suo regno un terzo di ducato (3). Così dalle terre di buona parte d’Italia, del Veneto cioè, dallo Stato - Pontificio e dal Napolitano i giudei eran impediti di pellegrinare a Ge- rusalemme. Nè diversamente dovettero andare le cose in Sicilia, per- chè quantunque nei molti documenti pubblicati sui nostri giudei nulla (1) DA Crvezza, Op. cît. Vol. IV, pag. 281. (2) Arch. ven., anno V, pag. 100. (3) WapIxe, Annales Minorum, 2° ed. t. X, pag. 568. LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA 9 si trovi nel 1427 e negli anni immediatamente di appresso che accenni a quella proibizione, pure basta il solo documento del 6 gennaio 1456 (1) a provare come i giudei siciliani avessero bisogno di speciale licenza per andare a Gerusalemme, e che fossero loro comminate gravissime pene ove tentassero infrangere quella tale ordinanza. Dal quale docu- mento ricaviamo infatti che molti giudei di Siracusa, insieme ad alcuni di Palermo, di Messina e di Catania, venduti i loro beni avean tentato di soppiatto di trasferirsi a Gerusalemme, e che colti nell’atto di par- tire dovettero acconciarsi colla regia Corte con una composizione, come " allor si dicea, di onze mille (L. 12,750). La qual somma, certo rile- vante per quei tempi, non si giudicherà enorme ove si tenga conto che grande era il numero di coloro che volean emigrare in Palestina, e che essi dovevano redimere le loro persone dalla servitù, e i loro beni dalla devoluzione al regio fisco : «in primis petinu li supradicti procu- «raturi nomine procuratorio hi tutti li Iudey tantu di la chitati di si- «racusa quantu di la camera reginali masculi et fimmini grandi et « pichuli li quali foru et su inculpati et processati insembla come quelli «di palermo di messina et di cathania per lu regiu fiscu hi absque « licencia sindi andavano in iehrusalem cum la navi di manueli burgs «contro li quali lu fiscu dimandava esseri declaratu loru beni esseri «acquisiti et devoluti ac pubblicati a lu fiscu et li persuni servi et es- « seri reducti in scavitutini». Vedasi quindi come pure in Sicilia, forse contemporaneamente a quello di Venezia, dovette pubblicarsi bando, per cui si proibiva ai giudei di pellegrinare in Gerusalemme, e come le pene sancite qui contro i violatori di esso fossero ben più gravi di quel che altrove. Pur quella forte somma pagata nel 1456 valse a fare abolire per sempre quel bando o ordinanza che sarà stata, come chia- ramente rilevasi dal seguente capitolo presentato per la sopradetta composizione e dalla provvista appostavi dal vicerè Lop Ximen Dur- rea: «item supplicanu ala signoria vostra hi sia vostra mercezi da « ora per sempri dari licencia a li Iudey di lu regnu di sichilia et spe- « cialiter a quilli di la camera reginali tantu presenti quantu futuri hi « libere et impune sindi poczano andari in ierhusalem seneza impachu «et contradictioni alcuna. et vindiri et alienariloru beni mobili et sta- « bili et portarisi quilla spisa chi necessaria sirra. ne nixuni ufficiali «li pocza prohibiri ne impachari immo sine alicuius pene incursu si « poczano imbarchari ed andarisindi sine licencia di officiali regii et re- 10 LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA « ginali — Placet domino viceregi predicto quoad Iudeos syracusarum «camere reginalis et panormi respectu quia ipsi contribuunt in huius- « modi composicione. dum tamen quod in quolibet viagio octo Iudey «tantum accedere possint et non ultra. qui valeant secum deferre pro « expensis id quod necessarium fuerit et cum solute fuerint uncie cen- < tum et nonaginta ad complimentum unciarum mille pro tota compo- « sicione omnes judayce regni gaudeant huiusmodi capitulo». Con tali restrizioni adunque i giudei di Sicilia dal 6 gennaio 1456, o poco appresso, quando fu interamente pagata la composizione di onze mille poterono liberamente andare in Palestina. In Italia intanto vigeva la proibizione, la quale durò almeno per la repubblica veneta sino al 1488, o poco prima, quando cioè Obadia di Bertinoro giunse in Gerusalemme, dove apprese essere stato quel divieto annullato. « Ed oh », egli esclama, «avessi io ciò saputo da quelle parti, perchè allora io non avrei im- « piegato tanto tempo nel mio viaggio ». Così il Bertinoro dalle Romagne fu obbligato a venire a Palermo, per recarsi a Siracusa, da dove dovean passare le navi veneziane che facevan il tragitto per Beyrut vicino a Gerusalemme. Vedasi quindi come anche le navi veneziane potessero dalla Sicilia portare pellegrini ebrei in Palestina, non ostante il divieto ricordato più sopra, il quale di dritto o di fatto fu inteso nel senso che si restringesse ai porti della repubblica veneta. Così Obadia di Bertinoro dopo cinque giorni di navigazione, addi 13 luglio del 1487 trovossi a Palermo, dove intendea stare sol di passag- gio; ma pur dovette rimanervi per ben tre mesi, stretto dalle insistenze e dalle moine degli ufficiali della giudaica, che l’obbligarono a predi- care i sabati nella loro sinagoga. L'argomento delle prediche del Berti- noro si aggirava sopra soggetti morali: a condannare cioè la maldi- cenza e la disonestà; vizii capitali che rimproverava ai suoi correli- gionari di Palermo. E pare che quelle prediche, a quanto riferivano all’oratore, non siano state senza frutto : ma egli stesso dubita che sia stato duraturo. Più salutare forse fu l’opera del rabbino italiano nel procurare di risanare la comunità ‘giudaica di Palermo di un male che internamente la corrodeva. Il governo della giudaica fin da antico tempo era in mano di dodici magistrati, la cui elezione spettava alla comu- nità, epperò venivan chiamati eletti. Ma già da molti anni, forse dal 1474, sotto Gaspare De Spes, i vicerè di Sicilia avean arbitrariamente avo- cato a se quella elezione; onde i giudei più inetti e più intriganti per via di corruzione arrivavano a conquistare il governo della giudaica; governo che non si restringeva al solo esercizio pubblico del culto re- LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA Il ligioso, ma si estendeva a molte funzioni della vita amministrativa e civile. Inquinata così la base della elezione dei magistrati non è a dire quante deplorevoli conseguenze derivassero in tutto l’andamento della comunità giudaica. Il Bertinoro descrive con termini vivacissimi quello stato di cose, che egli non potea non deplorare. Onde non è punto a dubitare che avvalendosi del grande credito che incontrò a Paler- mo, egli non abbia mancato di dar consigli, perchè si desse riparo a tanto guasto che corrodeva la comunità giudaica. E a presumere ciò mi induce il fatto che appunto poco dopo della partenza ‘del Bertinoro, i giudei di Palermo non cessarono d’ implorare dal vicerè e dal re che fosse rispettata l’antica osservanza per la elezione degli ufficiali « di li «]judechi la quali si fa et divi de anno in annum farisi per serutinei « di li judei et in quilli non putiri ne diviri interveniri officiali et per- «suni christiani » (1). Nè mancarono di fare osservare che appunto per la trasgressione di quella costumanza la giudaica di Palermo «a sobportato grandissimi danni ete divenuta ad grandi inopia » (2). La quale cosa ora ben si capisce, dicendoci il Bertinoro che i magistrati giudei facevan man bassa sui beni della giudaica per ingraziarsi animo degli ufficiali go- vernativi, i quali avean procurato la loro elezione. Né la giudaica di Palermo si stancò finchè non ottenne di essere integrata nell’ antica consuetudine, pria per disposizione viceregia, poi per conferma del so- vrano, da cui provocarono pure la dichiarazione di doversi ritenere di nessun effetto qualunque provvisione regia o viceregia che immutasse la forma della elezione dei magistrati giudei (3). Così il male deplorato dal Bertinoro fu guarito nella base, e la giudaica di Palermo potè spe- rare di essere meglio amministrata. Ciò non fu però se non per bre- vissimo tempo, perchè immediatamente dopo sopravvenne il decreto di ‘Ferdinando il Cattolico di generale espulsione dei giudei. Tornando alla relazione di Bertinoro io non mi soffermerò a notarne i singoli pregi, che procurerò di dichiarare nelle note che aggiungerò, avvalendomi dei documenti che ci han forniti gli archivî siciliani. I quali a dir vero, non ci apprestan tanto quanto ce ne dà la sola let- tera del dotto rabbino italiano. Dati sul numero dei giudei di Palermo; angherie alle quali andavan soggetti; luogo di loro abitazione ; arti e mestieri da loro esercitati; loro vizî e difetti; costumanze civili e reli- giose; descrizione della loro sinagoga. E poi popolazione dei giudei di (1) Cod. Dipl. Vol. II, pag. 425. Documento del 26 luglio 1489. (2) Cod. Dipl. Vol. II, pag. 511. (3) Cod. Dipl. Vol. II, pag. 552. 12 LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA Messina, loro sinagoga e qualche speciale costumanza di essi. Un as- sieme insomma di notizie che difficilmente noi ci potevamo attendere riunite in un sol documento. Omettendo tutt’altre considerazioni, che spontaneamente vengono alla semplice lettura della relazione del Bertinoro, farò soltanto rilevare la minuta descrizione che egli fa della sinagoga di Palermo, la quale, se- condo lui, non aveva l’eguale nel mondo. Quella descrizione completa le notizie che precedentemente avevamo e che ci avea lasciate il Mon- gitore nei manoscritti che si conservano alla Biblioteca comunale di Palermo. A me dopo tante ricerche in questi ultimi giorni fu dato di ritrovare il documento dal quale il Mongitore attinse quelle notizie; l’atto cioè di vendita che i giudei di Palermo fecero della loro sinago- ga, o meschita, come qui arabicamente si appellava. Quell’atto merita di essere pubblicato, perchè è il più bel comento che possa farsi alla lettera di Obadia di Bertinoro. Della quale io presento solo quella parte che esclusivamente ci riguarda, traducendola dall’originale ebraico, edito già, come dissi, nel volume terzo del Jalrbuch fiir die Geschichte der Juden. Nella traduzione, attenendomi al testo, farò tesoro delle osservazioni dello Steinschneider, è non mancherò d’indicare quei luoghi nei quali mi è parso di non seguire i precedenti editori. TL__--<----<--<-<<-<<<<-<<<-«x<£<-<£«<-<-<<-<-< LETTERA DI OBADIA DI BERTINORO Il primo del nono mese [del 246] (1), dato assetto ai miei affari, partii da Città di Castello, dove io abitava; e passando di Roma giunsi a Napoli il do- dici del detto mese (2); ivi rimasi a lungo, non trovando una nave che mi fosse a grado. Di là mi spinsi sino a Salerno, dove per circa quattro mesi diedi lezioni gratuite, e poi ritornai a Napoli. Il giorno del digiuno del quarto mese del 247 (3) partii da Napoli su una grande e buona nave di Messer Bals.n, nella quale eravamo nove giudei ; e dopo cinque giorni (4), per difetto di vento, fummo a Palermo. Palermo è città grande, capitale del regno di Sicilia, vi si contano presso a ottocento cinquanta famiglie di Giudei (5), tutti riuniti in un quartiere [posto] (©) Neubauer e Schwab fanno rispondere il primo giorno del nono mese del 5246 al primo del mese di Siwan; questo è sì il nono mese dell’anno civile ebraico, che comincia dal mese di Tisri; però il nostro Autore non siegue il computo dell’anno civile, ma dell’anno sacro, che comincia dal mese di Nisan; sicchè il primo del nono mese ‘(ki- slev) 5246 corrisponde al nove novembre 1486. (2) 12 Kislev 5246 = 20 novembre 1486. (3) 17 Tammùz 5247= 8 luglio 1487. Questo digiuno serve a ricordare la resa di Ge- rusalemme prima ai Babilonesi e poi ai Romani. (4) 22 Tammîùz 5247 = 18 luglio 1487. (5) Abbiamo così un dato sicuro della popolazione giudaica a Palermo nel 1487. Secondo Bertinoro erano circa 850 famiglie giudaiche : ossia 4,250 persone, se la detta cifra sarà moltiplicata per 5; o più largamente 5,100, se moltiplicata per 6. In cifra tonda, 5,000; quanti presso a poco erano i Giudei di Palermo cinque anni dopo, all’epoca cioè della loro espulsione. Nel memoriale del 20 giugno 1492, indirizzato a Ferdinando il Catto- lico, gli alti ufficiali del regno di Sicilia fra le altre cose affermano: vostra prudentis- 14 LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA nel più bel sito del paese (1). Essi sono artigiani , lavoranti in ferro e in rame, facchini, e si addicono a qualsiasi lavoro della campagna (2). I eristiani li hanno in disprezzo, perchè tutti quanti [vanno] laceri e sucidi (3). Sono obbligati a por- tare sul petto come distintivo una pezzuola rossa della larghezza di un danaro di oro (4). Su di loro pésa gravemente la regia servitù, dovendo prestarsi a sima Majestati cum so altissimu ingegno po considerari partendosi ad uno tracio di la sua cita di palermo chinqui milia persuni etc. (Lagumna. Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia, Vol. III, pag. 47). Vedasi quindi come nel 1469 gli Ebrei di Pa- lermo non potevano essere 9600, quanti li suppone l'Avv. Fr. MaGGIoRE-PERNI nel suo libro : La Popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XVIII secolo; Palermo, 1592, pag. 91. 1) La parola che traduco quartiere, significa propriamente piazza, e non v7a. strada, come hanno Neubauer e Schwab. I Giudei di Palermo sin da tempo antico abitavano in un quartiere distinto, ricordato nel secolo X da Ibn Hawgal, nell’Hérat al Yahud(Ax4ri, Biblioteca arabo-sicula, Vol. I, pag. 20) compresa fra le vie moderne Ponticello, Cal- derai. S. Cristoforo. Giardinazzo e adiacenze dove rimasero sino al 1492. Vedasi V. Di GiovaxNI, La Topografia antica di Palermo, Pal. 1889, Vol. I, pag. 100 e segg. 2) Nel secolo XV il lavoro delle arti meccaniche a Palermo era quasi tutto in maro dei Giudei; come fu fatto notare a Re Ferdinando nel memoriale citato più sopra: re- sulta ancora un altra gravi incomoditati chi în quisto regno quasi tutti artisti su Iudey li quali tucti al un colpo partendo si manchira multu di la comoditati di aviri attitudini li christiani essiri serviti di così mechanichi et specialiter di arti di ferru tantu per lu ferrari di li animali come per lu lacurari di la terra como ancora per li così necessarij ad navi galei et altri vasselli marittimi. ne si po în brevi termino tanti christiani suppliri a li dicti necessitati et bisogni. E già nel 1459 i giudei Jacob Abelladep ed Abram Acezara avevano esposto a re Giovanni: Iudei di la aliama di Palermo suno multi pobri et non campano excepto di loro arti et erercirij. (Cod. Dipl. II, 43). (3) Eppure gli ufficiali della giudaica di Palermo, a 2 marzo 1490, si credettero nel dovere di esporre al vicerè chi alcuni Judei non considerando loro condicioni pre- summino fari pompa di vestimenti tanto masculi como fimini portando mustri di siti et eciam ornandosi di iocali et altri ornamenti non pertinenii a Judei; onde i detti ufficiali ottennero di tener consiglio per stabilire pene contro i giudei che facessero sfoggio di abiti di lusso. (Cod. Dipl. IL 479). (4) I giudei di Sicilia, uomini e donne, erano obbligati a portare un segno, detto Rotella. che li distinguesse dai cristiani: masculi în superioribus vestibus suis prope pecius et mulieres prope pectus et super Rindellis sive mandtellis în qubito portare debeant signum factwm cum panno rubeo ad modum subscriptum : ©. Così disponeva Federigo III di Aragona con lettera patente del 12 ottobre 1366 colla quale richiamava in vigore un'antica costituzione del suo avo Federigo II, emanata anche prima del 1310 quando imponeva un segno distintivo pei musulmani : de saracenis providere volentes cum providerimus de Judeîs. (Cod. Dipl. I, 33 e S1). Certo sin da principio i giudei mal soffrivano di portare quel segno; epperò procuravano di nasconderlo o di apporlo in posto meno appariscente. Ma i cristiani non cessavano di richiamarli all'osservanza LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA 15 qualunque opera in servizio del re: come tirare le navi all’asciutto , costruire terrapieni e cose simili. Se qualeuno è condannato a morte, o alle battiture, o a castighi, i Giudei debbono eseguire la sentenza (1). Molti di loro [hanno il vizio] della detrazione, e commettono [tale] delitto come se fosse la cosa più lecita [del mondo]; ogni giorno, continuamente, l’uno non fa che dir male dell’altro, senza soffrirne rossore. Se poi taluno odia qualche persona, [subito] gli appone delitti che non sono mai stati, e che non furono mai fatti; e se avviene che ese- guite le indagini, si appura la insussistenza [del reato apposto], non per questo si fa niente al calunniatore, perchè secondo gli statuti e le leggi del paese chi dice male di un altro non può esser condannato se non gli si provi in faccia il suo operare (2). Quei Giudei anche molto facilmente trasgrediscono le pre- serizioni della castità, e molte son le spose che vanno a marito essendo già. in- cinte; se non che sono molto severi nel proibire il vino dei Cristiani; io stesso fui testimone che ad un giudeo fecero perdere la mercede che dovea percepire per trasportare da un posto in un altro il vino di un cristiano; e se quegli non avesse contratto quell’ impegno se non per trascuratezza l’avrebbero scomuni- cato [addirittura] (3). della legge, e più ancora il Revisore della Rotella, un magistrato speciale che per se o per i suoi procuratori imponeva il carcere e la multa ai trasgressori. L’ esenzione dal portare la rotella era un privilegio che si otteneva dal re; così, nel 1447, alla giu- daica di Messina previo pagamento di onze 115 (L. 1466, 25) fu concesso che le donne vedove e povere o altre che non avessero randello potessero portare manti mascolini, sui quali non si apponeva rotella (Cod. Dzp?. II, 232). (1) I giudei di Sicilia eran chiamati servi della R. Camera, e come tali avevano dritto alla regia protezione; non per questo però dovean prestarsi a qualunque opera in ser- vizio del re, ma eran tenuti a speciali servizi, secondo le consuetudini antiche dei sin- goli luoghi. L’obbligo di fornirei carnefici da scegliersi fra persuni vili et di infima condicioni era sicuramente comune a tutte le comunità giudaiche. Cfr. Cod. Dipl. II, 533. (2) Traduco a parola le espressioni del testo, perchè Neubauer e Schwab resero molto liberamente l’idea dell’autore, traducendo il primo : Das Landesgesetz fordert noch diese Uebelthat, da nach demselben der Hinterbringer nicht getraft avird; e il secondo : Za loy de pays ne punît pas ces fausses accusations. (3) I cristiani alla loro volta abborrivano dal bere vino dei giudei; onde la Univer- sità di Girgenti fra gli altri capitoli del 6 giugno 1426 domandava al Vicerè che i giudei non vendessero vino ai cristiani e che questi non potessero comprarne : per hi non esti digna cosa hi lu cristianu digia biviri la rachina pistata di li pedi di li tudei. In pratica però, specialmente a Palermo all’epoca del Bertinoro, vi era reciproca tolleranza; perchè dai documenti appare come i giudei vendessero vino a cristiani, e come questi adibissero giudei anche nella stessa manifattura del vino. Più che da in- tolleranza religiosa, alla quale parrebbero alludere le parole del Bertinoro, quella proi- bizione di bere vino di cristiani derivava da un fatto economico interno della giudaica. I giudei, come si sa, formavano una università distinta dalla cristiana, con ammini- strazione speciale e speciali gabelle; fra queste v’ era quella sul vino ; per la quale i Bb) 16: LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA La sinagoga di Palermo non ha l’eguale nel mondo (1). Essa ha un cortile esterno negozianti giudei normalmente dovevano pagare alla comunità il dazio di tre carlini e grana cinque per ogni botte. Delle volte la comunità, trovandosi in grandi strettezze, si riservava il monopolio della vendita del vino giudaico, o elevava il dazio, per tre o quattro anni, sino a tarì 20, per tutto il vino; ovvero per una determinata quantità, sino ad S00 botti di vino. Non cito i particolari che possono rilevarsi dal Codice Di- plomatico:dei Giudei. In tutti i casi si dovevano obbligare i giudei a non bere d’altro vino fuor di quello giudaico, perchè usando del vino cristiano avrebbero avuto modo di sfuggire il dazio imposto. La pena pei trasgressori, approvata sempre dal Vicerè, era una multa pecuniaria e la seomunica maggiore, come appare dai seguenti due documenti : 29 luglio 1475.... tem quod si digia emittiri banpnu sub pena di unci chentu di applicari a lo regio fisco et dechi a la curti di lu Capitaneo chi non sia persuna al- cuna di li dicti Judei di qualsivogla gradu et condicioni chi digia ne poza viviri altro chi lo vino predicto inchuso et accactato per la dicta Judeca. et chi li dicti chinqui Judei electi et eligendi ut supra pozano ultra la dicta pena mettiri pena di scominica sollempni a loro voluntati et comu loru ordiniranno tutti quilli et quanti contrave- nissero (Cod. Dipl. II, 1702). 17 marzo 1479..... hi subta ardui peni et excominica maiuri chi neruna habea di viviri aliro vino chi quillo di li dieti taberni (Cod. Dipl. II, 248). L’anno 1487, quando il Bertinoro si trovava a Palermo, ferveva appunto la quistione del vino; a dirimere la quale intervenne l’autorità del Vicerè (Cod. Dip?. II, 416). (1) La Sinagoga di Palermo, come tutte le altre di Sicilia, veniva intesa col nome di Muschita, parola evidentemente derivata dall'arabo masgîd, moschea, per antica re- miniseenza degli arabi in Sicilia. Per quel che particolarmente riguarda Palermo è da osservare che il quartiere det giudei trovavasi compreso nel quartiere della moschea d’Ibn Siqlab, fuori della città vecchia o del Cassaro (Amari, Biblioteca arabo-sicula, Vol. I, pag. 14 e 20). Dalle espressioni usate dal Bertinoro che la sinagoga di Palermo non ha l’eguale nel mondo, a me non pare improbabile che quella originariamente sia stata la moschea d’Ibn Siglàb, e che sia stata dagli Ebrei acquistata o loro concessa, quando imusulmani si dileguarono dall'isola nostra. Forse la stessa cosa accadde in altre parti di Sicilia; sicchè le moschee continuarono a chiamarsi col loro nome antico, sotto i nuovi padroni. Una via di Palermo dove esisteva la moschea d’Ibn Siglàb e poila Sinagoga dei giudei si denomina ancora vzcolo della meschita. Sulla Sinagoga di Palermo, così bellamente descritta dal Bertinoro, noi sapevamo solo quel tanto che si trova nell'atto di vendita che i giudei ne fecero .insieme allo spedale a Cristina de Salvo, per onze 200 (L. 2550), addi 6 ottobre 1492, presso Notar Domenico De Leo. Riserbando pel Codice Diplomatico dei Giudei la pubblicazione dell’atto, giova qui riferirne la parte sostan- ziale : Abraam de aurifice etc. vendiderunt.... omnes et singulas stantias aliamae seu muskitae ipsorum Iudeorum hujus urbis cum omnibus cortilibus tocchis copertis et discoopertis ac cum balneo et cum hospitali et cortilibus ipsius hospitalis et omnibus et singulis domibus stantiîs membris et locis quibusvis dictae aliammae dittiqui ho- spitalis, et etiam cum omnibus bancis catenis et bonis aliis affiris et non affiris in dicta aliamma dictoque hospitali existententibus sitis et positis in quarterio Alber- LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA 17 con piante di viti che si arrampicano su pilastri di pietra (1). Io non ho visto mai di simili viti, delle quale una, misurata da me, aveva lo spessore di cinque dita. Si scende quindi per mezzo di gradini di pietra nell’atrio della corte che è dinanzi la sinagoga ; essa cinge da tre lati una esedra fornita di grandi sedili, dove se ne sta a sedere la gente che per qualsivoglia ragione non gariae hujus urbis secus dictum cortile domorum nuncupatum di la Muskita per ipsam Iudnicam dictae Christinae venditum et secus fundacum et plateam macelli praefatae Tudaicae et secus viridarium magnifici Scipionis Suttilis viam publicam et alios seu aliter si qui sunt confines ete. Oltre la Sinagoga coi suoi cortili, il bagno e l'Ospedale pur con cortili, i giudei di Palermo possedevano altri immobili che vendettero per onze 300 (L. 3825) alla detta Cristina De Salvo per altro contratto, sotto la stessa data e presso il medesimo notaro De Leo: Cortile domorum vocatum lu Cortiglio della Muskita consistens in domibus quatra- ginta vel circa computatis apothecis situm et positum intus hanc hurbem et in quar- terio Albergariae cum quodam cortiliolo secus muschitam ex parte retro secus virida- rium nobilis Scipionis Suttilis. secus Hospitale Iudeorum. secus viam publicam quae ducit a macello Iudeorum ad forum Guzzettae. Quod quidem Cortile venditum exten- ditur a janua Muschitae seu cortilis ipsius Moschitae usque ad Ponticellum aque- duetus vocati di Maltempo. situm ante tanuam viridarii dicti Scipionis Suttilis. in frontispicio viridarii nobilis Petri Antonii Imperatoris. item secus viam publicam per quam viae publicae (sic) et Cortile venditum habent ingressum et egressum. cum omnibus et sinqulis pergulis et arboribus citrangulorum et de lomionis. pilis. puteis. fonte aquarum et toccis discopertis in ipso Cortili. cum cortiliolo ut supra. Dopo quel tempo gl’immobili dei Giudei sopra descritti ebbero le seguenti vicende. La compratrice Cristina De Salvo istituì eredi universali dei suoi beni Leonora ed Emilia Elisabetta figlie di lei e di Giovanni Abatellis suo secondo marito (Testamento presso Not. Giacomo de Randisio, 4 febbraio 1495). Questi come padre e legittimo am- ministratore dei beni delle figlie, il 27 ottobre 1507, concesse ad enfiteusi la Mischita e parte delle case a Suor Lucrezia De Leo per fondarvi un monastero sotto il titolo di S. Maria del Popolo (Atto presso not. Pietro Tagliante). Il quale più tardi venne abo- lito, e i locali furono acquistati, per enfiteusi, dal Collegio dei notari (Atti presso no- taro Lorenzo Crecco, 3 agosto 1583 e 8 febbr. 1584); la proprietà però di tutti i béni De Salvo, compreso il dominio diretto degli stabili già dati ad enfiteusi, era pervenuta in potere dell’opera di Navarro, che ne prese possesso a 17 agosto 1549. Finalmente per atto in notar Giulio Trabona delli 8 giugno 1596 gli Agostiniani acquistarono i medesimi locali, nei quali fabbricarono la grande Chiesa di S. Nicolò Tolentino e un convento, e così finirono le ultime tracce dell’antica sinagoga dei Giudei. Dopo la sop- pressione degli ordini religiosi, la Chiesa fu convertita in Parroechia, e nel Convento il Municipio di Palermo allogò alcuni suoi ufficii, fra i quali l'Archivio del Comune. (1) Non di marmo, come ha Schwab. Il cortile delle pergole è ricordato nell’ atto di vendita che i giudei fecero a Cristina De Salvo degli immobili della Comunità. Nel 1507 gli eredi della De Salvo concedendo quel cortile, cortile pergularum cum pilertis, si ri- servavano le pergole stesse, reservatis pergulis cortilis di li pileri. (Not. Pietro Ta- gliante, 27 ottobre 1507). 1 vuole entrare nella sinagoga. In detta corte v'ha un elegantissimo pozzo (1). Nel quarto lato si apre la porta della sinagoga ; il cui edifizio è un quadrato, lungo quaranta cubiti e largo quaranta. Dalla parte che guarda l’ oriente è il santuario (hécàl), un'elegante costruzione in pietra a forma di cappella (2). Im- perocchè [i Giudei di Palermo] non ripongono i libri della legge nell’arca, ma dentro il santuario, sopra una tavola di legno fornita di cassetto (3), insieme alle corone delle estremità loro e ai melogranati di argento e di pietre preziose [po- sti] ai capi dei [loro] cilindri. Quei Giudei mi riferirono che il valsente di ar- gento, di pietre preziose e di ricami in oro, che allora si conservava nel san- tuario, era di quattro mila [pezzi] di oro (4). Il santuario ha due porte: una a mezzogiorno e l’altra a tramontana; due uomini probi della comunità sono pre- posti ad esse per chiudere ed aprire (5). (0 5) LE GIUDAICHE DI PALERMO E DI MESSINA (1) ViLLasianca, Palermo d’oggigiorno, Vol. III. pag. 63, ta menzione di II, 246. (3) Ricc. pe S. GerMaNO : Mon. Germ. Hist. XIX, 319. (4) SCHIRRMACHER: Op. cit. II, 247. (5) Cf. Ficker: Forschungen ete. I, 462 e Regesta Imperti V. p. 538. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 DO) IRE Lo storico E. Wipkelmann , dottissimo e profondo conoscitore del tempo Svevo, quando tratta di questo punto è pieno di dubbi e spesso di contradizioni. « Voleva forse Federico creare un rivale alla baronia prepotente ? » (1). Ma non se ne vede il motivo giacchè lo stesso Win- kelmann dimostra che la nobiltà al tempo di Federico era uno stru- mento militare nelle mani del sovrano nè aveva alcuno influsso od im- portanza politica. «O voleva, segue lo storico tedesco, rompere le punte dell’opposizione contro le costituzioni di Melfi?» (2). Si potrebbe concedere pel parlamento del 1282, tenuto un anno dopo la promul- gazione di queste costituzioni, ma non per quello del 1240, quando nel regno le punte dell’opposizione erano state già rotte colla forza e da questo lato non v'era nulla da fare. « È impossibile, continua il Winkelmann, vedere in questa adunanza una rappresentanza nazionale (Landesvertretung); pure era qualche cosa che poteva condurvi » (3). « Era un gran passo nella via del progresso» (4). E infine poco ap- presso svolgendo meglio il suo concetto dice : « Federico/pose in Sicilia la prima base d’una rappresentanza nazionale » (5). Se dunque la riu- nione di Foggia fu la prima base d’ una rappresentanza e un gran passo nella via del progresso, pare che debba credersi che avesse una limitata autorità e competenza concessa dal Sovrano : altrimenti non si vedrebbe la possibilità d’arrivare per questo mezzo ad una rappresen- tanza nazionale. L’Huillard-Breholles dubita molto che Federico chiamando ai col- loqui i rappresentanti delle città volesse « farli partecipi dell’autorità (1) E. WINKELMANN: Geschichte des Kaiser Friedrichs des Zieite, Berlin 1863, p. 374. Non ho potuto avere nè dalle Biblioteche nè privatamente la dissertazione del Win- kelmann : « De regni Siculi administratione » ma essendo la storia, che ho citata, po- steriore di vari anni, credo che esprima in modo identico o migliore il pensiero dello autore. Il volume più recente del WINKELMANN : Kaiser Friedrich der Ziceiter, pub- blicato nel 1889, giunge solo al 1228 e fa vivamente desiderare il resto dell’opera. (2) Id. id. (3) WINKELMANN: Gesch. p. 376. (4) Es war ein grosse Schritt vorwàrtz, id. p. 375, (5) Den erste Grùnd zu einer landstandischen Vertretung gelegt hat. id. p. 398. — Lo stesso concetto manifesta il MestIcA nel suo discorso: Federico II în relazione con la civiltà Italiana. Iesi 1870 p. 37. 6 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 politica » (1); ma esprime questo suo pensiero come una sua convin- zione personale, senza alcuna pruova od esame. Lo Cherrier crede che questi parlamenti o colloqui servissero ad uno scopo finanziario e specialmente ad approvare le collette (2). Riferisco per la sua bizzarria l’opinione del Calisse che a Foggia Fe- derico «sanzionò la potestà legislativa del parlamento » (3). III. Le espressioni dubitative del Winkelmann, che considera il parla- mento del 1240 piuttosto in relazione al futuro che in se stesso, le idee opposte dell’Huillard-Breholles, dello Cherrier e di altri, dei quali ci occuperemo in seguito, insomma l’incertezza nel determinare l’impor- tanza della chiamata degli uomini demaniali al colloquio di Foggia è inevitabile, quando si considera il fatto isolatamente. Perciò molti scrit- tori, che hanno voluto trovare un migliore fondamento ai loro con- cetti, hanno ricercato nell’amministrazione e governo di Federico i casi affini e tentato di trovare dei punti, che rendessero almeno più vero- simili le loro interpretazioni. Ma spesso in questi casi, mossi com’erano da un preconcetto, hanno inteso arbitrariamente le fonti storiche. Que- sto però non toglie che la ricerca di casi consimili sia necessaria per levar via molte affrettate interpretazioni e vedere, almeno per l’ana- logia, più chiaramente la portata delle riunioni di Foggia e avvicinarsi di molto al vero, almeno nel suo valore generale, giacchè per la scar- sezza delle fonti non è dato di discendere a particolari. Noi dunque cercheremo quali altre volte e in quali limiti i liberi cittadini siano stati chiamati a cooperare col governo. Il conoscere che funzione com- piano questi liberi cittadini o scelti in una sola città per opere deter- minate o in molte per fatti generali ci può aiutare a comprendere se i due colloqui di Foggia dovevano controbilanciare l’aristocrazia o la burocrazia, o non invece aiutare questa nell’interesse della giustizia vo- luta dal Sovrano; se dovevano discutere liberamente per dare o rifiu- tare l’approvazione, o non invece prepararsi ad eseguire le cose co- mandate. (1) HUrLLARD-BREHOLLES : Op. cit. Introd. p. CDX. (2) CHERRIER: Hist. de la lutte des Papes et des Empereurs de la maison de Souabe. Paris 1858 22 ed. T. II. p. 198. « Le decret (della colletta) était rendu — ainsi que cela commencgait se pratiquer, dans un parlement general, ou siegeaint des députés de la bourgeoisie». (3) CaLissE : Storia del Parlamento di Sicilia. Torino 1887, p. 57. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 Ti Di più coloro che hanno ammesso l’importanza costituzionale di queste riunioni o d’altre, alle quali intervenissero liberi cittadini, hanno immaginato necessariamente che vi dovesse essere una funzione elet- tiva e tutto un sistema di rappresentanza popolare. Cercheremo di dimostrare che al tempo di Federico II non vi sono elezioni popolari, ma scelta di persone fatta dai funzionari e che Fe- derico si vale di queste persone scelte o per carichi straordinari, che per non essere bisogni duraturi non richiedevano ufficiali permanenti o per dar luce ed informazioni al governo sull’ azione e la condotta personale dei funzionari imperiali. Non sempre si può fare una di- mostrazione completa per la scarsezza delle fonti, la quale sussiste anche dopo le magistrali e copiose raccolte di documenti dell’Huillard- Breholles (1), del Boehmer (2), del Ficker (3), del Winkelmann (4). Pure si mostrerà chiaramente, spero, l’errore di molti giudizi e risul- terà evidente che Federico non riconobbe mai a nessuna riunione per- sonalità o diritto collegiale, quand’ anche v’ intervenissero persone a nome delle città; molto meno poi poteva concedere a queste riunioni un’autorità politica- a lato del suo potere, ch’egli per sua rovina con- cepì e volle sì nel regno di Sicilia che nel resto dell’ Italia illimitato ed assoluto. IV. 1. Nel 1222 l'Imperatore, aboliti i tari di Amalfi, decretò che d’al- lora in poi i contratti si facessero secondo i nuovi denari di Brindisi : in tutte le città, castella e ville vi dovevano essere sei duoni uomini, che decidessero di qualunque contestazione sorta a questo riguardo, «dopo aver giurato di adempiere coscienziosamente il loro ufficio (5). È chiaro che questi buoni uomini provvedevano ad un bisogno non duraturo, nato dal mutamento del sistema monetario. Ma erano eletti dagli abitanti di ciascuna terra o dai funzionari imperiali? Il passo citato non determina nulla e quindi non fa meraviglia che molti ab- (1) H. B. Histo : Diplom. già citata. (2) BorHMER: Acta Imperti Selecta. (3) FickeR: Urkunden zur Reichs — un Rechtsgeschichte. (4) WINKELMANN: Acta Imperii inedita. (5) Imperator sua statuta — dirigit qualiter — mercimonia vendi debeant ad denarios novos Brundusii — iuxta arbitrium sex bonorum hominum uniuscuiusque terre ad hoe iuratorum. Ricc. pe S. GeRrM. : p. 342. 8 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 biano creduto di vedervi un caso d’ elezione popolare. Ma i Chrorica priora dello stesso Riccardo pubblicati la prima volta nel 1888 (1) ri- portano opportunamente il testo del dispaccio di Federico sopra questi giurati, il quale a mio avviso fa conoscere chiaramente che i giurati erano eletti dai funzionari imperiali. Federico con una circolare del 10 settembre 1222 fa sapere che manda Pagano Baldino e il notaio Ric- cardo (ch’è lo stesso cronista) perchè in ciascuna città e luogo statui- scano « cum consilio iudicum et quorundam proborum hominum loci » in che modo si debbano fare le vendite, mettendo in riscontro le mo- nete vecchie colle nuove. « Illi autem qui iuxta predietorum ordina- tionem iurati fuerint super negotio, offitium ipsum taliter exequantur quod non possint de suspitione puniri » (2). /uata predictorum ordina- tionem, per me vuol dire secondo la nomina dei predetti Baldino e Ric- cardo , giacchè questo è il significato frequente della parola ordinare nelle costituzioni di Federico (3). 2. Nel 1226 Enrico de Morra maestro giustiziere pubblicò per or- dine dell’Imperatore alcuni statuti contro i giocatori d'azzardo, forban- niti, quelli che giravano di notte dopo il terzo suono della campana e i tavernieri che allo stesso terzo suono non avevano chiuse le loro taverne; e stabili un determinato numero di giurati, i quali dai tra- sgressori esigessero la multa (statuit certum numerum iuratorum ete.) (4). Qui il cronista dice espressamente che i giurati furono nominati dal maestro giustiziere. 5. (Anno 1230). Federico ordina ai giustizieri di mandargli senza tardanza quattro dei più attempati uomini (de antiquioribus viris) per ciascuna loro giurisdizione, che per anni e sapere conoscano le assise del Re Ruggero (5). Qui è chiaro che eleggevano i giustizieri. (1) RiccarpIi DE S. GERMANO : Chronica priora scoperti e pubblicati da A. GAUDENZI. Napoli 1888. (2) Id. p. 108. Cf. la disposizione di p. 109: Si quis-ministerialis vel ufficialis noluerit seu recusaverit officium facere ete. (3) Cf. Const. L. I, tit. 95 « Unum baiulum et iudicem unum — per magistrum ca- merarium, et tres iudices, qui gesta conficiant, per nostram excellentiam volumus or- dinari. HuiLLarp B.: Hist. Diplom. IV, p. 187 (cioè il maestro camerario nominava il baiulo e il giudice, ma l’imperatore si riservava di nominare i giudici degli atti cioè i notai). — Item precipimus ne iu aliqua civitate ordinetur potestas, consulem aut re- ctorem non habeant, sed balivus per ordinatos camerarios curîe statuatur. Ricc. DE S. Germ.: Chron. priora già cit. p. 102. — Omnia per iustitiarios ordinatos a nobis fi- niantur, id. id. p. 103. (4) Ricc. pe S. GeERM.: p. 347. (5) WINKELMANN: Aeta Imperti inedita, p. 605. ——_—eme.m e. pen IL PARLAMENTO DI POGGIA DEL 1240 9 4. (Giugno 1251). I macelli debbono essere posti fuori delle città «iuxta indigenarum consilium » (1). Ma sempre per disposizione del- l’autorità costituite, non per decisione di un corpo municipale. 5. (Giugno 1231). Fu data opera e forse l’ultima mano alla compi- lazione e coordinazione del codice di Federico II, che fu pubblicato l'agosto successivo col nome di nuove costituzioni. Riccardo di S. Ger- mano indica il fatto con queste parole : « Constitutiones nove, que au- gustales dicuntur, apud Melfiam, augusto mandante, conduntur ». Que- st’ ultima parola fu creduta valevole dal Palmeri (2) e dal Del Vec- chio (3) a mostrare l’importanza politica del Parlamento a questi tempi. « Riteniamo, dice il Del Vecchio, che Federico presentasse le leggi al Parlamento , il quale esaminatele e discusse per due mesi, le stimò degne della pubblicazione ». Reca per unica pruova : « che il verbo conduntur significa ben altro che la parte meramente passiva di ascol- tare gli ordinamenti emanati dall’ autorità regale ». Si, ma il verbo conduntur non dice per se solo da chi e voler intendere « dal Parla- mento» è un’ aggiunta tutta personale, che non può avere maggior valore di altre diverse aggiunte, che si potrebbero fare. Nè le consi- derazioni generali del Palmeri in sostegno della sua opinione hanno migliore fondamento. Nel Regesto pubblicato dal Carcani (4) avrebbe potuto vedere se Federico credeva d'aver bisogno di Parlamenti per approvazione di leggi : « Licet imperialis excellentie dignitas, cui da- tum est leges condere, sit legibus absoluta etc. » (5). 6. L'Imperatore col consiglio dei prelati, conti, nobili « et multorum civium regni » stabilisce che le terre demaniali paghino all’anno la do- dicesima parte di tutte le vettovaglie, legumi, lino e canape coll’obligo di trasportare a loro spese questo tributo ai magazzini imperiali (giu- gno 1232) (6). Anche qui i cittadini cogli altri nobili consigliano e non deliberano. 7. (1251). A distruggere le innumerevoli cavallette l'Imperatore or- dina che ciascun cittadino delle terre infestate debba innanzi il levare del sole pigliarne quattro tomoli e consegnarli a quattro cittadini giu- rati perchè fossero bruciati (capere quatuor tuminos de brucis et as- (1) WINKELMANN : deta Imperti inedita, p. 614. (2) PALMERI: Saggio storico sopra la costituzione di Sicilia. Losanna 1847, p. 30. (3) DeL VEccHIO: La legislazione di Federico II illustrata. Roma, 1874 p. 11. (4) CARCANI: Costitutiones — utriusque Sicilie. Napoli 1786. (5) Id. pag. 2 del Regesto unito alle costituz. HurLLARD-BrEBOLLES. V. p. 998. (6) Wixk: Acta ete. p. (87. 10 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 signare quatuor iuratis de terra qualibet) (1). Questi quattro sono ese- cutori d’un ordine loro imposto e non si vede perchè si debbono cre- dere eletti dai cittadini. 8. (1252). Per mandato del Conte d’Acerra « sex electi sunt in Sancto Germano » i quali con giuramenti dessero consiglio ed aiuto al cone- stabile di Capua incaricato di terminare le fortificazioni di S. Ger- mano (2). Qui electà vuol dire scelti dall’autorità e non eletti dalla cit- tadinanza (3). Ci basta d’ aver riportato questi passi di cronache e di documenti, per mostrare che molti di essi nella loro brevità ed incompletezza ci fanno spesso equivocare per la tendenza ch’è in noi d'interpretare le parole d’altri tempi in modo conforme ai nostri o di completare le in- dicazioni d’altri secoli con concetti di tempi più recenti. Ora dobbiamo considerare casi più importanti. VE Federico II nei codice di Melfi dispose, perchè il popolo non sof- frisse frodi nelle misure e nei pesi dei venditori, che in ciascuna terra si scegliessero due buoni uomini coll’ufficio di denunziare alla magna curia o al giustiziere della provincia i colpevoli. I due buoni uomini come del resto tutti quelli incaricati d’una funzione pubblica e qualche volta gli stessi liberi cittadini, dovevano prestare giuramento. Di questa disposizione imperiale si vale il Gregorio per attribuire ai tempi di Pederico tutto un sistema d’ordinamento municipale. Nelle sue Considerazioni sopra la storia della Sicilia, le quali anche oggi dopo le storie del Raumer, del l’Hoòfler, dello Schirrmacher e del Winkelmann sono la migliore e più estesa storia civile del regno Siciliano nel periodo Svevo, il Gregorio dice : « l’Imperatore ordinò che in ciascun luogo con la soprantendenza del baiulo fossero eletti due buoni uomini : doveva farsi l’elezione, pre- cedente un consiglio pubblico : il che suppone un’elezione popolare in atto solenne e legale » (4). Ma contro questa supposizione del sommo pubblicista sta il fatto che- chi elegge è sempre il baiulo e il magi- strato e che gli altri cittadini eminenti sono consultati e danno un pa- (1) Ricc. DE S. GERM. (2), Id. id. (3) Cum ad exequenda maiestatis nostre servitia virum aliquem probum et fidelem eligimus etc. HuiLLarRDp-BrEHOLLES. V. 951. (4) GREGORIO : Consid. ILI, p. 86. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 1l rere, ma senza diritto d’ elezione. Ecco le parole della costituzione. « Per loca quelibet duos eligi volumus fide dignos per ferre baiulos ordi- nandos (dunque ai baiuli toccava l’elezione). Quorum officialium nomina (dei due accennati fededegni) etiam per litteras sub sigillis et subscri- ptionibus eligentium (i quali eligenti debbono necessariamente essere i baiuli sopradetti) et eorum qui in iis consiliaum dederint eligendis (vi erano dunque persone che davano consiglio al baiulo, ma questi solo eleggeva) volumus destinari »- (1). Dunque vi erano quelli che eleggevano e quelli che consigliavano sull’elezione: i primi erano i baiuli e gli altri erano uomini della giurisdizione dei baiuli stessi: d’elezione popolare non v'è traccia. Eppure il Gregorio non ha che questo solo passo per stabilire che nel periodo Svevo i Comuni di Sicilia fossero « innalzati ad uno stato più formato di corporazione, che compariscono da ora innanzi abilitati ad altre qualificazioni di corpo politico ». Que- st’altre qualificazioni riguardavano pel Gregorio il diritto d’eleggere i deputati al Parlamento di Foggia, come esamineremo in appresso. Per ora diciamo che oltre di questa pruova, ch’è l’unica riguardante direttamente il tempo Svevo, il Gregorio reca un diploma del 1275, nel quale si nomina il siggillo dell’università di Corleone, il che gli sembra che dimostri l’esistenza del Comune. « Veggonsi memorie, egli dice, nelle quali è nominato il suggello d’alcuna università, ossia l’im- pressione di quello convalidando gli atti pubblici dimostrava d’ aver quasi riunito il consenso degl’ individui tutti del luogo, ch’ è quanto dire del comune » (2). Ma il «sigillatum sigillo dicte universitatis » di Corleone è un’espressione di un documento notarile che accenna, senza riportarlo, ad un altro atto, col quale si costituivano da parte dell’u- niversità e di Corleone alcuni sindaci e procuratori; mentre nel 1280 abbiamo il documento stesso di una nomina, fatta dall’ università di (1) CARCANI: Constituttones ete. p. 203.—Hu1iLLARD-BREHOLLES: Hist. diplom.IV,154— xicc. DE S. GERM.: Mon. Germ. Hist. p. 366. In tutte e tre queste opere le parole sono identiche: nell’ediz. dei Mon. Germ., penso per una svista tipografica, si trova una virgola tra dederint ed eligendis, la quale renderebbe inintelligibile il passo. Nella cit. ediz. dei CRronica priora (Napoli 1888), che reca anche il testo della cronaca prima conosciuta, si riproduce serupolosamente la virgola dell’ediz. dei Mon. Germ. — Cf. Wix- KELMANN: Acta ete. p. 678: « In quolibet officio predictorum (degli artigiani) eligentur duo meliores, qu? ordinabuntur per curiam terre et hoc significabunt imperatori per litteras, in quibus sigilla vel subscriptiones sint omnium, qui consilium dabunt cum baiulo de hiis eligendis — si non ydonei fuerint — alii substituantur eque sub eadem forma per baiulum et curiam terre, cum consilio proborum hominum ». (2) Gree.: Consid. L: TI. C. 5. 12 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 Corleone, d’ un suo procuratore e sindaco, il quale documento è cor- roborato dal siggillo del baiulo e dei giudici (roboratum sigillo et sub- scriptionibus nostrum, qui supra baiuli et iudicum » (1) senza che vi apparisca nessun siggillo proprio del Comune. Il confronto di questi due documenti fa vedere che il siggillo dell’università del primo cor- risponde al siggillo del baiulo e dei giudici del secondo: giacchè sono precisamente il baiulo e i giudici che costituiscono la «curia terre » cioè il governo municipale del tempo Svevo. « Fassi anche menzione, segue il Gregorio, d’alcùn paese in cui già era il palazzo del Comune : ivi certamente amministravano giustizia i magistrati, ivi il popolo si ragunava a consiglio e si deliberava di cose, che gl’interessi dell’università riguardavano » (2). Ma Bartolomeo di Neocastro, dal quale egli trae questa notizia, non parla del palazzo del Comune di Messina (Communis palatium , e si poteva aggiungere signum Communis), se non quando questa nella rivoluzione del Vespro era insorta contro gli Angioini (3). Si comprende che le particolarità d’un fatto così straordinario e nuovo non si possono estendere al tempo precedente. WIE Im un Parlamento feudale tenuto a Lentini nel 1233 e in un decreto imperiale dato a Messina nel gennaio 1234 gli storici hanno creduto di trovare elezioni popolari ed avviamenti a Parlamenti nazionali. Del Parlamento di Lentini non si conosce che quanto ne dice il decreto ora indicato di Messina, col quale Federico statuisce che due volte (1) Descrizione del Tempio di Monreale di G. L. LeLLo, con le osservazioni di M. peL Giupice. Palermo 1702. Privilegii e bolle p. 93 e 96. — Il doe. del 1250 a p. 96, ch'è anche riferito in parte dal GreGoRrIO nella nota 20 del L. III C. 5 mostra contro l'opinione di lui che il sindaco dell’ università di Corleone era eletto dal baiulo e dai giudici soltanto e non da un’ assemblea formata da costoro e da altre persone scelte del luogo, che nel doc. sono citate esclusivamente come testimoni. Qualche volta le ci- tazioni del Gregorio hanno bisogno di essere riscontrate nel testo non solo per il signi- ficato, ma anche per l’esattezza delle parole. Così egli dice che nel secolo XV i Vicerè non potevano concedere rendite maggiori di « once due castigliane> Tom. VI, p. 45. Ma il testo redatto in lingua catalana dice: Item que no puguen donar rens, bons, feudals o burgensatichs excedents o passants rende de deu onzes castum ani ete. Ar- chivio di Stato di Palermo. Conservatoria di Registro (Mercedes) Vol. 7, f. 219. (2) GREGORIO : lib. cit. (3) BartH. DE NeocasrRO in Murat. SS. XIII, p. 138. Ved. cap. 24-27. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 15 all'anno (i° maggio e 1° novembre) si tengano delle curie in cinque città di Puglia e Sicilia. « Da ciascuna delle grandi città vi debbono intervenire per parte della generalità dei cittadini (pro parte universi- tatis) quattro uomini dei più eminenti, stimati e dabbene e che non siano faziosi (de melioribus terre, bone fidei et bone opinionis et qui non sint de parte). Dalle altre non grandi e dai castelli vi debbono intervenire due » (1). Ma si i quattro che i due da chi dovevano es- sere eletti? Non si dice: quindi, salvo quello che noteremo in appresso, dovremmo credere questo decreto inutile alla nostra ricerca. Pure è necessario che se ne conosca qualche altra delle sue disposizioni più importanti. Dopo aver ordinato che alle curie debbano intervenire vescovi, conti e baroni, Federico prosegue : « a ciascuno è data facoltà di esporre le ingiustizie (liberum erit proponere gravamina) che abbia sostenuto sì dal giustiziere della provincia che da tutti gli altri uffi- ciali » e lagnarsi di danni od ingiurie sofferte o nei beni o nella per- sona. Nell’assemblea interverrà un « nuncius specialiter de latere no- stro transmissus » il quale scriverà «tutte le lagnanze fatte (clamores propositos) contro gli ufficiali ; su ciascuna delle quali farà una dili- gente inchiesta associandosi due prelati o persone secolari idonee e manderà tutto il processo alla corte imperiale (et eam mittat ad no- stram curiam), perchè punisca la negligenza o disubbidienza dei fun- zionari ». È chiaro che queste curie non avevano nessuna autorità 0 competenza propria: era una facilitazione fatta ai sudditi di rivelare al governo le colpe dei funzionari, sulle quali il nunzio speciale po- teva facilmente condurre una inchiesta esatta e completa, perchè erano presenti i cittadini delle varie località e i vescovi e i feudatari. Per- ciò ottimamente scrisse il Gregorio che queste riunioni « debbono ripu- tarsi non adunanze di Parlamenti, ma corti di giustizia » (2). E nelle pruove ed annotazioni aggiunge « è manifesto che i Parlamenti ave- vano per oggetto diretto i servigi e le contribuzioni pubbliche e queste corti istituite da Federico non riguardavano che la sola retta ammi- nistrazione della giustizia e la sindacatura dei magistrati » (3). E questa stessa sindacatura, è necessario ripeterlo, non apparteneva a queste (1) HurLaro BREHOLLES: Hist. diplom. ete. IV, 460-2 — Rice. DE S. GeRM. all’an- no 1234. — Muta : Commentariorum tom. VI. p. 28. Palermo 1627. Il Muta erede che questa costituzione stabilisca i tre bracci del Parlamento: De quibus tribus brachits fuit cognitum et dispositum ete. id. id. p. 26. (2) GreGORIO : Consid. L. III, p. S4. (3) Id. id. nota 15. 14 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 adunanze, ma alla curia imperiale e perciò si debbono chiamare piut- tosto corti d’informazioni e d’inchieste amministrative e giudiziarie a carico di funzionari accusati e colpevoli. Eppure il grande storico Mi- chele Amari cita appento il solo Gregorio a sostegno di questo suo giudizio. cioè che Federico dopo il ritorno di Terrasanta «cedendo un poco all'opinione pubblica rese ordinarie le tornate dei Parlamenti re- gionali e chiamovvi espressamente i Comuni » (1). E il Mitrovie: « un incaricato del re dirigeva l’ assemblea, nella quale era permesso ad ogni rappresentante di produrre non solo i lagni contro l’amministra- zione, si ancora le proposte (!) che poteano tornare vantaggiose al paese. Le decisioni (?) suggellate, derivate da una discussione di otto o al più 14 giorni, venivano rimesse all’imperatore , che ordinava si provvedesse subito ai bisogni che ne risultavano » (2). In questo stesso decreto si accenna ad un « solemni colloquio » tenuto poco prima a Lentini. Ma questo colloquio non s’occupò di leggi, o di finanza o non saprei che altro accennato da vari scrittori, bensì del bisogno che v’ era di punire gli abusi dei funzionari. Ecco le parole del testo : « convocatis fidelibus nostris Sicilie in solemni colloquio apud Lentinum , necessario vidimus statuendum de corrigendis et compe- scendis excessibus, si qui per officiales nostros commictantur. Ideo solemnes curias indiximus per singulas provincias regni nostri, de cetero annuatim, prout in seguenti distinete et peracte legerit (legitur?) celebrandas ». Da queste parole è chiaro che nel colloquio di Lentini, tenuto qualche mese prima del decreto di Messina, l’imperatore rico- nobbe la necessità di frenare e punire le colpe dei funzionari: nel de- creto di Messina afferma lo stesso principio e ne determina i modi (3). Ora per conchiudere credo evidente che rispetto ai quattro o due cittadini, che dovevano intervenire alle corti, non si trattava d’ ele- zione popolare, perchè in questo caso non poteva l’imperatore preseri- vere che gli eletti fossero de melioribus terre, bone fidei, bone opinionis et qui non sint de parte. Questa disposizione s’accorda solo coll’opinione che li dovesse scegliere il baiulo, al quale si dava il criterio da seguire, sia pure dopo aver consultato la parte eletta della cittadinanza. Se fosse altrimenti, l’imperatore avrebbe stabilito un criterio legale o d’età o di condizione, non un criterio morale, impossibile ad appli- care, perchè nessuno avrebbe potuto giudicare se veramente 1’ eletto fosse dei migliori, di bona fede ed opinione. (1) Amari: Sforza dei Musulm. in Sicilia, Vol. III. p. 610. (2; B. MitroviIc: Federico II e la sua opera in Italia. Trieste 1890, p. 63. (3) Per me a Lentini non fu pubblicata nessuna legge. IL PARLAMENTO DI POGGIA DEL 1240 15 VIII Equivoci non minori nacquero sull’ imposizione e riscossione della colletta. Le tasse del periodo Svevo erano indirette, cioè gravanti su oggetti di dazi e dogane, ad eccezione d’ una sola, ch’ era la colletta. Questa tassa era puramente eventuale e straordinaria, perchè doveva pagarsi soltanto in quattro casì: per la difesa del regno, se assalito da forze notevoli; pel riscatto del Re o dell’erede del trono, se caduti in poteri dei nemici; pel cavalierato del Re o del fratello o di uno dei figli :; infine pel matrimonio d’una sorella o d’una figlia del Re. Ma Federico dopo il ritorno di Terrasanta (1229) la rese quasi annuale, onde nella cronaca di Riccardo di S. Germano, scrittore imparziale, che trova a ridire, quando n’è il caso, sul Papa e sull’ Imperatore, risuona come un molesto ritornello 1’ espressione: Imperator generalem collectam toti regno imponit, generalis collecta in regno ponitur et esigitur, im- ponitur et colligitur ate. Ma come s’imponeva e riscuoteva questa col- letta ? Il Gregorio per la scarsezza delle fonti conosciute al suo tempo credette di ricorrere ad un documento di Roberto d’ Angiò posteriore di circa un secolo al dominio Svevo e da quello risalire all’ età pre- cedente. Perciò non è meraviglia ch’egli dica che il giustiziere « or- dinava a ciascuna università che eleggesse tra i suoi abitanti i più adatti e i più probi perchè tassassero e raccogliessero sul luogo la somma prescritta » e che «se alcuno della popolazione credea d’ es- sere gravato, poteva richiamarsene alla sua università » (1). Noi pos- sediamo maggior copia di fonti contemporanee e perciò conosciamo il fatto con più esattezza. Ma prima non sarà inutile di notare che lo Cherrier nella sua Storia della lotta dei papi e degl’ Imperatori di Casa Sveva mentre non fa che riprodurre letteralmente il Gregorio in questa faccenda della colletta, cita invece due pagine del Regesto di Federico, nelle quali nè il Gregorio nè altri avevano potuto trovare cosa che faccia al proposito. « Quando il decreto che imponeva una nuova cal- letta, dice lo Chierre:, era stato emesso sia dalla sola volontà dell’Im- peratore, sia, come già cominciava a pratticarsi, in un generale Par- (1) Greg. Consid. III. p. 120-21 — Nella nota 22 al cap. VI dice il perchè si fosse giovato delle carte angioine per una ricerca sul tempo Svevo. Ma il doc. ch'egli reca, del 1333 sembra troppo posteriore; sarebbe stato più ragionevole tenersi ai capitoli del Re Giacomo del 1286, che non hanno nulla di quanto egli suppone. Mura: Comm. Cap. regîs Iacobi, Tom. I. cap. 60. 16 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 lamento, dove sedevano i deputati della borghesia (questo veramente non è preso dal Gregorio, il quale non mai sarebbe caduto in un errore di questa fatta di credere che il Parlamento avesse competenza sulle collette, giacchè anche nel secolo XV, quando I autorità parla- mentare era ampia ed eminente, il re decretava nei casi legali la col- letta di propria autorità, senza che vi fosse luogo a consulta o deli- berazione del Parlamento); gli stessi contribuenti eleggevano giurati, che stabilivano la quota parte di ciascuno, avendo riguardo alle sue facoltà ed ai suoi pesi » (1). Ma invece del Gregorio cita il Regesto di Fede- rico, pagine 267 e 338; nella prima delle quali vi è una lettera a Rug- giero de Amico, giustiziere in Sicilia di qua dal fiume Salso, intera- mente estranea all’ argomento dello storico Francese; nella seconda l'Imperatore rimprovera Andrea de Cicala capitano della Puglia e Boe- mondo Bissono giustiziere dell’Abruzzo perchè non avevano fatto sapere alle città e castelli la somma della colletta a ciascuno assegnata, il che era un provvedimento contrario alle leggi (satis informiter processum est). Infatti la regola era che l’Imperatore decretava la somma totale della colletta da imporsi al regno e ne assegnava a ciascun giustizie- rato la sua parte in ragione della popolazione e ricchezza; il giusti- ziere dovea ripartire l’assegno in equa misura tra i suoi amministrati, cioè città, castelli, baroni etc. in modo che la somma di quello che si pagava non fosse superiore a quella stabilita dall’ Imperatore. Il quale perciò nel dispaccio citato comanda che si dichiari a ciascuna città o castello o persona sin da principio la colletta a ciascuno imposta, e quando si tratta di assegnare ai cittadini in particolare la loro quota si proceda « cum consilio nostrorum fidelium » come vedremo meglio fra breve; ma era sempre il giustiziere che imponeva: « diligentissima consideratione babita, collectam imponere debeas et taxare » (2) « Ogni abitante, segue lo Cherrier, poteva appellarsi della loro decisione alla stessa comunità » ch’è precisamente il concetto del Gregorio, che di- chiara di prenderlo dal documento angioino del 1533 e non dalle pa- gine del Regesto , ch’ egli pure aveva citate immediatamente prima ; donde forse nacque l’equivoco dello Cherrier (83). (1) CHERRIER: Op. cit. II, p. 198. (2) Allo stesso Bissono Federico scrive il 13 marzo 1240 (24. Carcani, p. 372) della colletta da pagarsi dai Chierici e dalle Chiese della sua giurisdizione. < Ordiniamo che considerato il potere e la facoltà dei singoli, richieda ed esiga da essi come ti sem- brerà meglio (requiras et exigas ab eis prout melius expedire videris)». (3) Il DeL VeccHOo nella cit. Legislazione di Federico II illustrata, a pag. 195 tra- duce lo Cherrier senza nominarlo ma citando sempre le pagine del Regesto 267 e 338. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 17 I nu6vi documenti pubblicati dal Winkelmann nel 1880 fanno cono- scere meglio il modo che si pratticava. Ecco le istruzioni date dal- l’Imperatore il 1288. Tutti i giustizieri erano convocati a Foggia, dove da Enrico de Morra maestro giustiziere avrebbero udita la volontà dell’ Imperatore e giurato di non imporre nè esigere colletta per amore o per odio , per sprezzo o per timore. Tornati alle loro residenze chiameranno a se due o quattro dei migliori e più fedeli del castello o della città, dai quali si faranno indicare i conestabili (1) e impositori di collette dal tempo della coronazione di Federico (1220); da questi sceglieranno due, i quali con giuramento dovranno indicare i più ricchi della vici- nancia o comestabulia loro : a questi più ricchi dovrà primieramente il giustiziere imporre la colletta e così di seguito agli altri meno facol- tosi. I poveri erano esenti, perchè nessuno doveva pagare una colletta minore di due tari d’oro (nec aliquid imponetur -- quod sit minus tarenis auri duobus). Gli stessi impositori e collettori dovevano pagare la tassa, compresi i maestri giustizieri, camerari, baiuli, giudici, notai e castellani. I Baroni, militi e chierici pei feudi pagavano 1’ adoa, pei beni patrimoniali la colletta. Se nelle collette precedenti qualcuno era stato illegalmente esentato , i collettori d’ allora dovevano pagare del proprio quella somma, che si aggiungeva alla colletta presente. Anche chi aveva uno speciale privilegio d’esenzione (per esempio, gli stranieri che andavano a stabilirsi nel regno) (2) erano tenuti a pa- gare, ma soltanto quella somma che credessero , purchè non troppo piccola, ma tale da mostrare la buona volontà d’aiutare l’imperatore. A chi non pagava, una multa (per imposiciones penarum), che doveva essere moderata, ma esatta inesorabilmente. Se la multa non bastava, si confiscavano i beni, si abbattevano le case; e se il suddito si faceva contumace da sembrare sedizioso (ut sediciosus videatur) si doveva sottoporre a pena corporale. La totalità per la colletta ed adoa pel 1238 fu di 100,000 onze. In altra ordinanza del 1241 si stabiliva che de qualibet civitate et loco dovessero chiamarsi non già quattro o due, ma alcuni (aliqui) dei più Lo Schirrmacher ripete il pensiero dello Cherrier, cioè che Federico metteva le collette annualmente « entweder aus eigner Machtvollkommenheit — oder die Verwilligung dazu auf den Curien nachsuchte » — Op. cit. II, p. 259. (1) I comestabuli al tempo normanno erano non solo capi d’un certo numero di mi- liti, ma anche governatori di città o provincia. Perciò comestabulia indica anche al tempo Svevo un distretto o parte del giustizierato. (2) HurLLarp-BrEeHOLLES : Op. cit. IV, p. 234 — WINKELMANN: Acta ete. p. 622-3. SI ta) 1 (070) IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 fedeli e migliori. Costoro indicheranno con giuramento i più ricchi e migliori della loro terra in presenza dei capitani e giustizieri, insieme coi quali tasseranno i prelati delle Chiese e i più ricchi nominati, quindi i più ricchi e migliori di quelli che restano: agli altri metterà la tassa il giustiziere. La somma non deve eccedere la porzione asse- gnata al giustizierato. Questa volta la quantità era minore della pre- cedente: così l’ Abruzzo doveva 4,500 onze, invece di 7,000, che gli s’erano imposte prima {l). Da questi documenti risulta che la colletta s'imponeva dai magistrati imperiali e non da giurati eletti dalla cittadinanza: che della somma tassata nessuno poteva richiamarsene alla sua università ; che alcuni fedeli e migliori erano chiamati soltanto per illuminare e consigliare i funzionari pubblici, cd al più per frenare indirettamente il loro arbi- trio, perchè troppo spesso, come riconosceva lo stesso Federico, la col- letta s'imponeva iniquamente (contro solitam impositorum et collecio- rum nequiciam)» (2). E riepilogando sui vari casi esaminati e consi- derandoli un poco nel loro insieme in modo che qualche particolarità dell’ uno serva a completare )’ altro, diremo ch’è evidente che, mal- grado la brevità e incompletezza delle leggi imperiali e delle cronache che ci rimangono, gli uomini non appartenenti alla gerarchia ammini- strativa non ebbero mai nessun diritto od autorità pubblica. E se alcune volte furono chiamati a concorrere al buon andamento dell’am- ministrazione o della giustizia, che Federico da buon despota voleva non eguale (non erano tempi d’uguaglianza) ma imparziale per tutti, essi non ebbero questo carico come rappresentanti di città, molto meno come eletti dal popolo, ma come persone giudicate dai baiuli od altri funzionari delle più stimate e virtuose della loro terra. VII. La colletta imposta quasi annualmente riusciva gravissima agli abi- tanti del Regno: onde Federico, oltre del rigore delle leggi e delle mi- naccie, non disdegnava di avvalersi d’ogni altro mezzo per attenuare la cattiva impressione, che ogni nuovo annunzio faceva ai sudditi. In un dispaccio del 4 gennaio 1238 così si esprime : « Non essergli regno più caro di quello di Sicilia sì per la bellezza del luogo, si perch’egli la considerava come sua patria e domicilio e credeva di peregrinare (1) WIxK: Acta p. 665-6. Cf. pel 1248 p. 7II — HviLLrarp-BreHoLLEs: IV, 16-18. (2) WIxK: Acta etc. p. 698. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 15) ogni qualvolta uscisse dai porti o dai confini del regno. Benchè Im- peratore, egli si gloriava d’ esser chiamato Pugliese. Ma oltre di questa affezione personale, egli doveva avere particolare riguardo ad un popolo, che gli era stato sempre fedelissimo e concorde nel volere e nel non volere, nelle avversità e nella prosperità. Ora si tratta di fare un ultimo sforzo per deprimere definitivamente i ribelli; e di poi egli non avrebbe dovuto più combattere per la sua autorità ed essi avrebbero provveduto alla loro tranquillità perpetua e a quella dei figli. Gli diano il presente sussidio ed imprimeranno nel suo animo e nella sua memoria un segno indelebile della loro affezione. Nè alcuno voglia avvalersi di privilegi per sottrarsi a questa lodevole partecipa- zione di peso: questa volta paghino tutti, nessuno eccettuato, ma senza recare pregiudizio ai loro privilegi per le altre volte ». E in un altro dispaccio del gennaio 1241: « Essergli una trafittura al cuore vedere e sentire i pesi e le fatiche dei suoi sudditi, che pure hanno tanta purezza di fede, tanta interezza di devozione verso di lui. Compatirli tanto più che a lui stesso è troppo doloroso vedere i figli del suo regno dover combattere fuori di esso e dare sempre danari. Egli credeva d’aver tutto compiuto, d’aver ridotto all’estremo i ribelli, d’averli costretti a chieder grazia, ch’ egli avrebbe accordato, se la boria e l’iniquità papale non avesse soffiato un nuovo spirito ai morti e per mezzo dei ‘suoi angeli cattivi, Francescani e Domenicani (per angelos suos malos, frates minores et predicatores scilicet) non avesse fatto ribellare Faenza» (1). La gravezza della colletta era accresciuta di molto dall’iniquità dei funzionari, che la ponevano ed esigevano. Abbiamo visto che vi erano soggetti non solo le terre demaniali, ma anche gli uomini dei feudi e i feudatari stessi, i quali ultimi se non avevano nello Stato di Fede- rico nessuno influsso ed autorità, pure godevano di molti onori e pre- minenze. Così qualunque ordine regio era trasmesso agli uomini feu- dali per mezzo dei loro baroni, fatta eccezione appunto della colletta, che doveva su tutti imporsi ed esigersi dai funzionari imperiali, senza alcun conto dell'autorità baronale (2). Im questa parte dunque gli uo- mini feudali e demaniali erano eguali e 1’ autorità dei funzionari lar- ghissima. Ma questi funzionari abusavano assai spesso del loro potere (1) HurLLarD-BreHOLLES : V. 1058-60. (2) Volumus — ut si quando per homines baronum aliquod servicium fuerit facien- dum, ipsum non hominibus sed dominis eorum iniungatur, excepta generali collecta ipsis hominibus baronum per eosdem iusticiaros imponenda. WiIxk : Acta, p. 625. (A Riecardo de Molino giustiziere dell'Abruzzo 28 Nov. 1231). 20 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 e ponevano ed esigevano iniquamente la tassa. Lo confessa lo stesso Federico e lo confermano altre testimonianze. Contro la corruzione ed iniquità dei funzionari Federico istituì le corti di maggio e novembre, ma forse con iscarso risultato o perchè pochi ardissero d’accusare 0 perchè i funzionari si aiutavano e sostenevano tra loro. Ad ogni modo il malcontento e le lagnanze dovevano esser molte, onde nel 1240 Fe- derico dovette ordinare una generale inquisitione contro quelli che ripartivano ed esigevano la colletta. Riccardo di S. Germano serive: «Mense Februarii (1240) — per tolum regnum fit generalis inquisitio contra impositores et collectores collecte imperialis anni preteriti ut de sua malitia pro meritis puniantur». Ora, dico subito il mio parere, il Parlamento di Foggia dev'essere messo in relazione con questo atto di vigore compito da Federico contro gli abusi dell’amministrazione e perciò dovette avere lo scopo di rassicurare le popolazioni che in ap- presso si sarebbe proceduto più equamente e nello stesso tempo di mostrare, mescolando minaccie e blandizie con quell’ eloquenza della quale sono un esempio i due dispacci poco fa riferiti, di mostrare, dico, la necessità, che lo spingeva ad eccedere i limiti legali e tradi- zionali della imposizione pecuniaria. E siccome la colletta colpiva tutti, demaniali e feudali, sono d’avviso che a questo Parlamento in- tervennero i nunzi sì degli uni che degli altri, oltre dei prelati e i baroni, che certamente vi furono presenti perchè Riccardo di S. Ger- mano e i documenti chiamano questo « colloquio generale ». E se VIm- peratore, come ora si vedrà, ordina ai giustizieri di condurre seco uno o due nunzi delle sole terre demaniali, questo non toglie, a mio pa-- rere, che quelli dei feudi laici ed ecclesiastici fossero stati invitati per mezzo dei loro signori, ai quali perciò sarebbero state inviate lettere che non compariscono nel Regesto. Il quale Regesto deve ritenersi una copia dei documenti più importanti fatta per uno scopo speciale e perciò non contenente tutti gli atti della cancelleria imperiale. ID:G Ora possiamo leggere i documenti che ci rimangono sul Parlamento del 1240 e che si riferiscono soltanto alla sua convocazione (1). (1) Il FickER crede che in questo Parlamento siasi trattato del nuovo ordinamento governativo contenuto in un complesso di leggi, il cui proemio comincia con Nihil veterum e le quali non si sarebbero limitate alla magna curia, come vuole l'HUILLARD- BREHOLLES, ma avrebbero abbracciato, come afferma il Capasso (Sfor. esterna delle cost. del regno di Sic. promulgate da Federico II, Napoli, 1868), tutte le nuove costituzioni IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 Ql Il primo, diretto a Ruggiero de Amico giustiziere della Sicilia di là dal fiume Salso, dopo un breve esordio dice così : « Avendo noi indetto per la prossima futura festa delle Palme un generale colloquio presso Foggia (colloquium indixerimus generale), nel quale vogliamo aver presenti dalle diverse parti del Regno alcuni dei nostri fedeli, ordiniamo e comandiamo alla tua fedeltà che nel termine predetto ti presenti personalmente al nostro cospetto, conducendo con te due nunzi di ciascuna città ed uno di ciascun castello, i quali appar- tengono presentemente al nostro demanio (ducturus tecum duos nun- tios de unaquaque civitate et unum de unoquoque castro — que in demanio nostro tenetur ad presens), tranne quelle città, alle quali sul che trattano dei giustizieri provinciali e dei camerari (Capasso p. 29-31). E se RiccarDO DI S. GERMANO assegna alla costituzione N71! veterum la data dell’ottobre 1243 (almeno così indica il testo del cronista, e non il gennaio (244, come dicono l’HuiLLaRp e il Capasso), il FickER appoggiandosi alle parole: « dum ab expeditione Ligurum ad re- gnum nostrum Sicilie quietis auram veniremus assumere, licet brevem » dice che il ricordo d’una breve dimora nel regno durante la guerra di Lombardia ci riporta alla primavera del 1240 e che anche senza questo dovremmo riferire la costituzione al detto tempo per la stretta connessione che ha col nuovo ordinamento dello Stato del mag- gio 1240 (Forschungeu ete. I, 362). E nei Regesta Imperii V. p. 538: « perciò anche senza ulteriore testimonianza si può soltanto pensare alla dieta di Foggia, ch'è la sola da noi conosciuta in questo tempo (Ohne weiteres zeugniss nur an die Reiehsversamm- lung zu Foggia—zu denken sein). 4 Ma malgrado l’esprimersi risoluto del F1CKER, non si tratta, per mio eredere, che di probabilità, anche secondo le sue parole (zu denken sein). E veramente non molto si è potuto sinora accertare della cronologia delle costituzioni di Federico : lo stesso Ca- passo nell'opera citata ha dovuto per la scarsezza delle fonti esporre più spesso un suo modo di vedere che un fatto sicuro: solo presentemente abbiamo molti dati più accer- tati con le assise di Capua del 1220 nei Chronzea priora pubblicati dal GAUDENZI e con gli Excerpta Massiliensia pubblicati dal WIiNnKELMANN. Per esprimere il mio av- viso, non vedo la necessaria contemporaneità dei decreti del 3 maggio, coi quali si creavano nel regno due capitani.e maestri giustizieri, e della costituzione N21 vete- rum, colla quale si creava un maestro giustiziere della gran corte, che dimorasse sem- pre coll’Imperatore, perchè può darsi benissimo che Federico abbia ereati i due primi nel 1240 e circa quattro anni dopo abbia sentito il bisogno di ereare un’altra magi- stratura superiore; benchè poi nel 1246 abbia rimesso le cose al posto in eui si trovavano prima del 1240. Le parole « dum veniremus » mostrano che la costituzione fu fatta o pubblicata prima d’ arrivare nel Regno e l'indicazione di Grosseto data da Riccardo sembra a proposito. Le più belle supposizioni non valgono quanto un fatto, e il fatto è che Riccardo indica l’ ottobre 1243 come data della costituzione Nihé! veterum. E siccome questo cronista non s'è trovato inesatto in nessuna delle date che assegna ad altre leggi o ad altri fatti non possiamo consentire col FickER, che qui Riccardo sia caduto in una svista ein Verschen). Certo se Riccardo colla costituzione Nzh72 veterum accenna alle sole leggi sui giudici, notai ed avvocati, questo non toglie che vi andas- 23 IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 mandarci i loro nunzi destiniamo lettere speciali, che tu curerai di far loro recapitare ». L’ ordine di condurre due nunzi, senz’ altra determinazione di chi dovesse sceglierli, mi pare che voglia dire che li debba scegliere lo stesso giustiziere, s’ intende non capricciosamente ma tra i migliori più stimati e dabbene, come nelle corti di maggio e di novembre e, se si vuole, dopo di essersi consultato colle persone più eminenti di ciascuna terra. Questo per me risulta dal documento ; tanto più che il vocabolo di nunzi malamente s'intende e traduce per ambastiatori, i quali si chiamano legati vel ambassatores e come rappresentanti di città compariscono in Sicilia solo dopo la rivoluzione del Vespro. Nun- Hus, secondo il Ficker, presso i Tedeschi ordinariamente significa im- piegato , presso gl’ Italiani giudice (1). Nunzi di vescovi, abati e no- bili, come anche di notai, giudici e funzionari inferiori si trovano frequentemente nelle carte private o dei funzionari del tempo Svevo e significano niente altro che messaggieri. Nel primo documento sto- rico del Parlamento di Sicilia, ch’ è di circa due secoli posteriore a Federico II, le università sono rappresentate « per nuncios, sindicos et procuratores legitimos » (2). Donde appare chiaro che il solo titolo di nunzi non era sufficiente a farli comparire come deputati di città. Nel secondo documento diretto ad Oberto Fallamonaco secreto di Palermo e ad altri secreti e castellani l’ Imperatore ordina che ven- gano a Foggia per la festa delle Palme, ma senza l’obligo di condurre altre persone come nella lettera precedente e conchiude : « ordiniamo alla tua fedeltà che nel termine predetto senza alcun ritardo ti pre- sero unite altre leggi, ma quali fossero è difficile accertare. Il passo dell’Isernia, citato dal FickER, che Federico avesse fatte delle costituzioni a Foggia dopo la sua secomu- nica, si riferisee a due sole e non a un complesso di costituzioni. Cf. Capasso : Op. cit. p. 34, n. 2. Il ms. della Bibl. Com. di Pal. segnato Qq. H. 124 contenente una copia delle costituzioni Fridericiane fatta per cura di Giovanni Matteo Spinelli nel 1492 (cf. D. OrLaNDO : Un codice di leggi, Palermo, 1857) riporta la legge Nih72 Veterum nello stesso posto dell’ediz. Carcani, ma senza utilità al confronto di questa, anzi con molti errori, specialmente nell’esordio. Questo codice poi manca del tit. 45 L. I « de officio capitaneorum et magistri iustitiarii » a guisa del cod. palatino e dell’ediz. del Linde- brochio e di Lione. (Del resto dal passo della cost. Nihil Vet. riportata dello stesso Fr- cKER non si comprende bene se la legge fu fatta tornando di Lombardia nel regno, o andando dal regno in Lombardia). (1) Am haufigsten finden wir von Deuschen die Reichsdienstmanners, von Italie- ner die Hofrichter als Nuntien verwandt. Ficker: Forschungen ete. Vol. 2 p. 6, $ 214. (2) Veggasi il testo del documento quale fu corretto e pubblicato dal cav. GIUSEPPE BeccaRIA in appendice al suo dotto e brillante lavoro: La regina bianca in Sicilia. Prospetto storico. Palermo, 1887. PO TT VI I. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 23 senti al nostro cospetto perchè tu vegga la serenità del nostro volto ed ascolti la nostra volontà ». Finalmente vi è il dispaccio « baiulis, iudicibus et universo populo Panormi » e delle altre città demaniali della Puglia e della Sicilia. Questo dispaccio, salvo la varietà imposta dal diverso indirizzo, nella prima parte è identico alla lettera mandata ai giustizieri e nella se- conda a quella mandata ai secreti e castellani. Questo è l’intero dispaccio : « Dalle nostre occupazioni sottraendo lodevolmente un po’ di tempo, ecco che ci rivolgiamo con presti passi al nostro ereditario regno di Sicilia, che tra tutte le regioni soggette alla nostra autorità stimiamo la principale e più dilettevole, per rivedere lietamente il regno e gli abitatori. Avendo pertanto indetto per la prossima futura festa delle Palme un generale colloquio presso Foggia, nel quale vogliamo aver presenti dalle singole parti del regno alcuni dei nostri fedeli, ordiniamo e comandiamo alla vostra fedeltà che nel termine predetto, per quanto avete cara la nostra grazia (sicut gratiam nostram diligitis) destiniate due vostri nunzi alla nostra presenza, che per parte di voi tutti mi- rino la serenità del nostro volto e a voi riferiscano la nostra volontà ». Non si dice nulla sul modo di scegliere i nunzi. Ma se si fosse trat- tato d'una elezione popolare, l'Imperatore avrebbe dettato qualche norma per stabilire chi vi dovesse prendere parte. Avendo completamente taciuto su questo punto, bisogna ritenere che intendeva che si proce- desse come nei casi analoghi. Ora nei casi precedentemente esaminati si vede che il baiulo e i giudici, i quali costituivano 1’ autorità co- munale del tempo Svevo ed ai quali primieramente nel dispaccio si rivolge l'Imperatore, il baiulo e i giudici, dico, erano soli ad eleggere, nulla più restando ai cittadini che una parte consultiva. Nè posso consentire collo Cherrier che « l'ordine indirizzato ai baiuli, giudici e popolo intero per procedere alla elezione (?) fornisce la pruova che ciascun (?) cittadino vi prendeva parte » (1). Il solo indirizzo non basta a provare un fatto così importante. (1) CHERRIER : Op. cit. II, p.224 — Parimente il DeL VeccHIO nella cit. Legis. di Pe- derico II. afferma che nella dieta di Foggia « convennero due ambasciatori (muntios) eletti dal suffragio dei cittadini, affinehè rappresentassero (secondo la lettera di Pier della Vigna a nome dell’ Imperatore) dinanzi al sovrano le città e i loro elettori in quel colloquio generale e gli altri che in appresso si fossero tenuti» p. 59. Chi non crederebbe, leggendo così citata la lettera di Pier della Vigna, che siano riportate le parole testuali di essa? Eppure nella lettera, da noi poco fa trascritta, non v'è indizio nè d’elettori, nè di rappresentanti, nè di colloqui futuri. DA IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 E certamente chiedendo i due nunzi Federico non intendeva di ren- dere omaggio al diritto popolare, ma di richiedere alle città l’adempi- mento d’un loro obligo. L'espressione « sicut gratiam nostram diligitis » ha suono di minaccia, come se mancando a quest'ordine la città sa- rebbe incorsa nello sdegno del sovrano. Il « servitium in colloquio » era un dovere feudale sì dei nobili che delle città ch'erano equiparate ai feudatari, anzi era il minimo che Federico si credeva in diritto di pretendere da loro. In una lettera del marzo 1226 diretta agli abitanti e città del ducato di Spoleto egli esprime il suo dispiacere di non aver trovati al luogo prescritto i loro militi e nunzi, perchè è indubitato, egli dice, « quod de terra etiam, que antiquitus est beati Petri patri- monio applicata, ad requisitionem nostram servitium in colloquio, ex- peditione ac rationibus aliis, rationibus advocatie, dignitati nostre de- betur ». Quindi comanda loro di nuovo «de nuntiis et militibus tran- smittendis » (1). E nel 1244: « Vogliamo specificare e dichiarare, egli dice, i diritti che abbiamo nella marca d’ Ancona e nel ducato di Spoleto e nelle altre terre della Chiesa, cioè cavalcata, parlamento, mercato e fodro (vidilicet de cabalcata et parlamento et mercato et procuratione), dei quali diritti fummo in possesso fino al tempo della discordia, benchè quanto al modo d’avere esercito e cavalcata sì sia per qualche tempo conteso tra me e i Papi Onorio e Gregorio » (2). Infine secondo il testo i nunci o Inessaggieri dovevano servire a riferire alle città e terre demaniali la volontà dell’ Imperatore. Que- st’espressione per me dev'essere pigliata letteralmente. DE Credo d’aver mostrato che le volute elezioni popolari del tempo di Federico II o mancano di pruova o sono contradette da pruove suffi- cienti, ed oltracciò d’ aver determinato 1’ importanza della chiamata degli uomini demaniali ai colloqui di Foggia in modo più conforme alle fonti storiche, al complesso dell’ amministrazione Siciliana ed al carattere di Federico II. Al quale molte idee, che non ebbe mai, fu- rono attribuite, specialmente da coloro, che nutrirono ammirazione e simpatia per la sua vasta cultura, il suo grande intelletto e la lotta sostenuta contro il Papato ; lotta, che nel nostro secolo, malgrado le (1) Riec. pe S. GeRrM.: Chron. priora p. 122-3. (2) HurLLArRD-BREHOLLES : Hist. diplom. ete. VI, 219. IL PARLAMENTO DI FOGGIA DEL 1240 25 forme differenti, s'è dovuta riprendere quasi nelle stesse condizioni di fatto, se non di diritto. « A considerar la sola tempra dell’ intelletto, dice l’Amari, Federico ci sembra un uomo del secolo decimo ottavo venuto su nei principii del secolo XIII » (1). Ma questo sarebbe un miracolo od una mostruosità storica e perciò non si può accettare. Per mio credere, il vero è che Federico non fu che un despota, per quanto illuminato, anzi il più perfetto despota del medio evo; che egli innestò l’autocrazia imperiale alla civiltà mezzo araba e mezzo latina del regno di Sicilia del suo tempo; che perciò la stessa organizzazione e centra- lità dello Stato moderno, che dopo la caduta dell’ [mperatore Romano troviamo la prima volta in Sicilia al tempo di Federico, non è che uno svolgimento e perfezionamento di quello che s’ era già fatto dai Siciliani nel tempo normanno, aggiuntavi la scienza giuridica romana, ch’era in gran parte risorta. Insomma Federico depresse, è vero, l’a- ristocrazia feudale e 1’ ordine ecclesiastico ma combattette con pari vigore la democrazia dei comuni e non rappresentò in fondo che l’ au- tocrazia imperiale, cioè se stesso. Perciò a lui ed alla sua dinastia toccò la sorte di tutti coloro che si fondano su un sol principio della vita civile, cioè sul principio d’autorità e non avendo saputo associarsi ai bisogni ed ai sentimenti dell’una o dell’altra parte del popolo, nel mo- mento del pericolo, venuto meno il sostegno della milizia che per i principi Svevi era formata principalmente di Tedeschi e Saraceni, non trovano appoggio sufticiente in nessuno degli ordini sociali. (1) Amari: Stor. dei Musulmani in Ste., Vol. III, p. 710. DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO Teo Jo Enrico VI, considerata la fedeltà dei cittadini di Caltagirone nei precedenti moti della Sicilia, conferma i loro privilegi e le concessioni fatte da Boni- facio marchese di Monferrato, legato imperiale. i Maniaco, 2 luglio 1197, XV Indizione. In nomine sancte et individue trinitatis. Henricus sextus divina favente cle- mencia Romanorum Imperator semper augustus et rex Sicilie. Imperialem decet excellentiam eos, qui ad fidelitatem nostram cum devo- cione recurrunt, benigne respicere ipsisque iura debita et consuetudines ob- servare. Inde est quod notum facimus universis Imperii et Regni Sicilie fide- libus tam presentibus quam futuris quod nos actendentes cum quanta devocione animi Calatagironi cives hactenus nobis serviverint, qualiter, ut nuper in regno Sicilie facta turbacione, obsequiis Imperii promptos se exhibuerint atque fideles, de munificencia nostra concedimus eis in perpetuum et confirmamus, una cum dilecta consorte nostra Constancia Romanorum Imperatrice serènissima et sem- per augusta et Regina Sicilie, omnia jura ipsorum et bonas consuetudines, quas a tempore regis Rogerii usque ad obitum secundi regis Guillelmi felicis me- morie habuerunt. Insuper eis concedimus, quemandmodum dileetus legatus noster Bonifacius marchio Montisferrati (1) nostra qua fungebatur legacione et auctoritate illis indulsit et sicut continetur in privilegio eorum quod habuerunt a primo rege Guillelmo, (tenimenta) (2) divisasque eorum, sicut continentur in prima pagina, quam de quaternione dohane nostre magne eis transeribi prece- pimus; hi (3) vero (4) sunt termini divisarum predictorum tenimentorum, sicut 28 ULOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO determinate ducuntur de loco ad locum. (Qui sì descrivono è confini delle terre). Hec autem omnia concessimus, salvo iure imperiali et ordinamento nostro et heredum nostrum. Statuimus itaque et imperiali sancimus edieto ut nulla om- nino persona alta vel humilis, ecclesiastica vel secularis contra hane nostre donacionis et confirmacionis divalem paginam venire aud&at vel eam aliquo modo presumat perturbare; quod qui facere actentaverit in ultionem sue teme- ritatis centum libras auri optimi pro pena componat et mediam partem camere nostre, reliquam partem passis iniuriam. Ad cuius rei eternam evidenciam pre- sentem exinde paginam conscribi iussimus et nostre maiestatis bulla conmuniri. Huius rei testes sunt Angelus tarentinus, archiepiscopus, Bernardus, archiepiscopus Ragusie , Io- hannes putheolanus, episcopus, Lodovicus dux Bavarie (5), Albertus comes de Spanheim, Lodovicus comes de Huneburg 6), Marcualdus senescalcus marchio Ancone, dux Ravenne (7) et Romaniole, Gerardus salernitane ecclesie rector, Didicus traiectine prepositus, Conradus maguntine prepositus, Alioldus de Horn- berc (8), Gualterius de Parisio, Henricus maniscalcus de Kalindino (9), Olricus dapifer de Duren (?) (10), Henricus pincerna de Luter et alii quam plures. Signum domini Henrici sexti romanorum (11) imperatoris invietissimi et re- gis Sicilie. Ego Conradus humilis episcopus et cancellarius Imperii una cum domino Gualterio Troiano episcopo Sicilie et Apulie (12) cancellario recognovi. Acta sunt hec anno dominice incarnacionis MCOXCVII , indictione quintade- cima. Regnante domino Henrico sexto Romanorum imperatore gloriosissimo , rege Sicilie; anno regni eius vicesimo octavo, imperii vero VII et regni Sici- lie tercio. Datum apud Maniachium per manus Alberti imperialis aule prothonotarii, VI nonas Iulii. Archivio di Stato di Palermo. Conservatoria del Registro. vol. 33. f. 545-6. Nelle Consuetudini di Caltagirone di S. Randazzini (Caltagirone 1893) fu pubblicato di questo diploma il principio sino alle parole: Insuper eis concedîmus e quindi la sola data, che vi è stabilita al 6 luglio. (1) Nel vol. cit. Montisfortis. (2) Manca questa parola. (3) haberi. (4) non. (5) Bona- rim. (6) Umrambut. (7) Favacie. (8) hornbe. (9) talliundino. (10) Abricus de pifer de taune. (11) Rome. (12) Apulis. DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 29 ML Enrico VI dona a Marino de Marino ed a Matteo de Marino Genovesi in con- siderazione di quanto avevano operato per V acquisto della Sicilia i feudi di Masuca e Gualtieri con altre terre. Messina 25 settembre 1197, I Indizione. Henricus Sextus divina favente clemencia Romanorum imperator semper Augustus et Rex Sicilie. Inter cetera, que imperatorie dignitatis nostre occupationibus (1) occurrunt, discretionis nostre deliberatio ad ea debet mentis et animi apponere diligen- tiam, que fide!ium serviciis retribucionem respiciunt, ut premiorum exemplo ceteri ad obsequendum animentur. Hine est quod considerantes fructuosa ser- vicia per vos, Marinum de Marino et Mattheum de Marino Ianuenses genitorem et natum, culminibus nostris impensa, patriam coniunctos et bona deserentes et aliquibus armigeris propriis sumptibus stipendiatis ad nobis serviendum de Ianua sponte transfretastis et affectuose et efficaciter servivistis; in retribucio- nem igitur tot serviciorum opportune prestitorum, damnorum passorum et in- teressuum, casalia Masuca et Gualteri nuncupata et territoria Cucumeni et S. Basilii in hoc regno Sicilie et valle Nemoris posita cum omnibus tenimentis , lusticiis suis vobis et successoribus vostris concedimus et donamus. Ut autem hec nostra concessio et donatio firme stabilesque in perpetuum subsistant et absque contradicione aliqua possideatis, presens privilegium exinde conscribi iussimus et maiestatis nostre sigillo communiri. Datum in civitate Messane anno Dominice incarnacionis 1197 (2), die XXV mensis septembris, I indictionis. Regnante domino Henrico VI Romanorum Im- peratore invictissimo et rege Sicilie potentissimo. Anno regni eius XXVIII, Imperii vero VII et regni Sicilie III. Biblioteca Comunale di Palermo. Ms. Qq. H. 3. f. 13. Copia del secolo XVIII. La notizia dì questo diploma e del precedente manca nel Regesto compilato dal Toeche in appendice all'opera: Heinrich VI. Leipzig. 1867. p. 670 e seg. Questa concessione è confermata da un diploma di Federico II, che si legge in transunto nel vol, 21 f. 126. Protonotaro. Archiv. di Stato di Palermo e che fu pubblicato nei Capribevia di G.L. Barberi (Doc. per servire alla storia della Sicilia, vol. 8, p. 179) ma molto scorretta- mente. Ne riproduco l’ultima parte ridotta a miglior lezione: « Huius rei testes sunt Addulfus Coloniensis archiepiscopus, Sifridus Maguntinus archiepiseopus, Dietricus Trevirensis archiepiscopus, Bernardus Barensis archiepiscopus, Lupaldus Wormaciensis archiepiscopus, Fridericus dux Lotharingie, Bertoldus dux Turingie, Lodoveus dux Ba- varie, Hermannus Landgravius ‘luringie, Robertus De -comes Loritelli et Gualterius Gentilis magister Comestabulus et Anselmus marescalcus. (Monogramma). Signum domini Friderici Romanorum regis semper augusti et regis Sicilie. 30 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO Ego Conradus Spirensis et Metensis episcopus, Imperialis aule cancellarius vice Si- fridi Maguntine sedis archiepiscopi et Germanie archicancellarii, recognovi. Acta sunt hee anno Dominice incarnacionis MCCXII. Regnante domino nostro Friderico Roma- norum rege semper augusto et Sicilie rege: anno regni eius in Germania primo et in Sicilia quintodecimo: feliciter amen. Datum Spire per manus Bertoldi de Niffe Impe- rialis aule protonotarii et vicedomini Tridentini. — L' Huillard-Breholles di questo doc. di Federico II reca la sola data (Hist. diplom. Friderici II. Tom. I, pag. 234). (1) Nel ms. occupantibus. @) 1195. III. Innocenzo III espone le ragioni, che lo inducono a sostenere la causa del pu- pillo Re Federico contro Marcoaldo, ed esorta i Siciliani a seguire Vesempio dei Marchigiani, che avevano scacciato lo stesso Marcoaldo da quasi tutte le fortezze di quelle parti. Roma, 6 marzo 1199. Innocentius Episcopus servus servorum Dei Venerabilibus fratribus... Panor- mitan... Capuan... Reginen... et Montisregalis Archiepiscopis et Episcopo Troian familiaribus regiis salutem et apostolicam benedictionem. Ad provisionem et defensionem Regni Sicilie ac charissimi in Christo filii nostri F(riderici) illustris regis ipsius exaltationem et tuitionem triplex ratio potissimum nos inducit. Prima est generalis sollecitudo pastoralis officii, que nos singulis ac presertim pupillis constituit debitores. Secunda est specialis, quoniam Regnum Sicilie ad ins et proprietatem Ecclesie Romane noscitur per- tinere. Tertia est quodam modo singularis, quoniam inclite recordationis C(on- stantia) Imperatrix ipsius regis tutelam et regni balium nobis testamento reli- quit. Hee igitur olim et nune sicut oportuit attendentes, antequam Marcoaldus Dei et Ecclesie inimicus prevaleret in regnum, imo ne prevaleret, potius prin- cipiis eius occurrimus, nec parcentes personis fratrum nostrorum nec thesauris Apostolice Sedis, dummodo possemus Regni quieti consulere ac primis ipsius M(arcoaldi) conatibus obviare. Direximus autem ad Burgum S. Germani dilec- tos filios Io: TT S. Stephani in Celio Monte presbiterum et G. S. Adriani Dia- conum Cardinales Apostolice Sedis legatos et cum eis milites Campanie ad solidos nostros curavimus destinare : qui licet burgo eodem per imbecillitatem burgentium occupato in Monasterio se receperit Cassinensi, inde tanem Mar- coaldum et suos viriliter impugnaverut, de ipsis frequentem vietoriam repor- tantes. Dileetum etiam filium nostrum Iord: TT S. Pudentiane Presbiterum Cardinalem Apostolice Sedis legatum contra eum ex altera parte direximus cum non modica pecunie quantitate, qui cum dilecto filio nobili viro Comite Celan... DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO SI militibus congregatis, licet ad Marcoaldum non potuerit propter multitudinem nivium, inclementiam temporis et asperitatem viarum per montana transire ; fautores tamen et complices eius viriliter impugnavit et maiorem partem eorum ad fidelitatem regis et devotionem Ecclesie Romane convertit, imo converti et reverti coegit: ita quod innovata fidelitate regis ipsius, quod super tutela ip- sius et regni balio nobis intendant, iuramento prestito firmaverunt. Misimus etiam in Siciliam dilectum filium nostrum G. S. Marie in Porticu Diaconnm Cardinalem Apostolice Sedis legatum, virum providum et discretum, qui hono- rem regni eiusdem specialiter semper dilexit et studuit promovere ; in multis etiam aliis, quod longum esset narrare, per singula Regi et regno studuimus providere. Quamvis tamen super his satis humana sollicitudo profecerit , plus tamen manus Excelsi profecit, cuius ope fideles regni (1). 0/0... RO ne - -..- « Pium est enim pueri Regis innocentiam . .. . et viriliter Rao Iustum pro Domino servo resistere, qui Dominum suum et regem et quondam Imperatoris Domini H(enrici) filiuam, Imperatricis autem Domine sue prolem exeredare nititur violenter. Pensare inter se possunt et ad memoriam revocare qualiter soli fideles nostri de Marchia, dilecto filio Io: TT S. Prisce Presbitero Cardinali legato Sedis Apostolice procurante, ipsum et complices suos de Marchia effugarint et qualiter pene nihil ei reliquerint de universis que in Marchia possidebat, licet in ea munitiones munitissimas ha- buisset, quas ex maiori parte iam sunt funditus demoliti. Id igitur saltem ho- minibus Regni ad fugandum cum debuisset audaciam ministrare, cum verecun- dum sit cis eum fugere vel timere, quem Marchiani. fortes et intrepidi fuga- verunt. Debetis etiam ad memoriam revocare quot et quanta pericula, eo prin- cipaliter procurante, per Imperatorem immo per ipsum verius circa res perso- nas et terram pervenerint toti regno, ut eius dominium quasi pestiferum sit vobis et ipsis exosum, quod non solum diligere vel audire nullo modo deberent. Omnibus etiam Archiepiscopis, episcopis et aliis Ecclesiarum prelatis citra Farum in regno Sicilie constitutis districte precepimus ut ipsum Marcoaldum et uni- versos fautores ipsius ac nominatim et specialiter eos, qui sunt de Regno, sin- gulis diebus dominicis et festivis, pulsatis campanis et candelis accensis, ex communicatos pubblice nuntient; et si qui ab eo recedere forte voluerint, eos a iuramento, quo ipsi tenentur, auctoritate nostra denuntient penitus absolutos, cum iuramenta, que ipsi excommunicato prestantur, periuria potius sunt dicenda; universo et singulos exortantes ut ad resistendum eidem, imo ad exulandum ipsum de regno, qui quotidie quasi pulvis aute faciem venti per Dei gratiam evanescit, sint unanimes et concordes. Licet autem in omnibus nobis et regno providere vellemus, quia tamen non possumus omnia providere , fraternitatem vestram monemus ac per Apostolica scripta precipiendo mandamus quatenus si quid idem G.a vobis per snas duxerit litteras requirendum, quod ad hono- rem et profectum Apostolice Sedis et Regie Celsitudinis debeat provenire, id faciatis sine dilatione compleri; et quod vos etiam cognosceritis expedire, per vestras ei curetis litteras intimare, ut id per ipsum celeriter impleatur. Ad hee 32 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO per Apostolica vobis scripta precipiendo mandamus, ut cum iam multas et magnas expensas pro regni defensione fecerimus et cotidie faciamus, non dif- feratis ulterius sufficientem pecuniam destinare, ne solum et totum onus nobis imminere contingat, quod non valeamus vel debeamus amplius substinere. Datum Laterani II Non. Martii, Pontificatus nostri anno secundo. Bibl. Com. di Pal. Qq. G. 1. f. 10-11. Vi-sono premesse queste parole: Ex litteris pontificiis auetographis conservatis in Bibliotheca D. Antonini de Amico Regis Catho- liei Historiographi. Sui fatti di S. Germano e della Sicilia ef. Gesta Innocentii III $ 23 e i Registri dello stesso L. I n. 557-64 e L. III n. 23. Ediz. del Migne. Parigi. 1855, vol. 510 seg. Sugli affari della Marca cf. le stesse Gesta $ 9 e l’Ep. 4 del L. II (1) Qui nel ms. vi sono ventisei righe, nelle quali a mala pena si legge qua e là qualche parola. IV. Federico II concede ad Almanno de Pancaldo il feudo di questo nome in Val Demone con la facoltà di richiamarvi quegli uomini che vi sono obbligati, o se costoro si negano, di dare le terre ad altri. Roma, aprile 1212, XV Imdizione. Fredericus divina favente gracia Rex Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, in Romanorum Imperatorem electus. Ad regnaneium gloriam spectare dignoscitur et regale solium maiori rutilat claritate cum celsitudo regia eos benigne respicit et eorum serviciis dignis re- tribucionibus respondet, quorum fides stabili sinceritate firmata nulla potest temporum varietate mutari. Inde est quod nos actendentes fidei puritatem et grata servicia, que tu, Almanne de Pancaldo , civis Messane fidelis noster , Maiestati nostre semper exhibuisti tam laudabiliter quam devote, considerantes expensas plurimas etiam et labores quos in itinere Alamannie pro honore nostri Culminis es perpessus, volentes tibi tanquam benemerito, providere, de innata nostre munificentie gracia concedimus et confirmamus tibi et heredibus tuis in perpetuum casale Pancaldi, quod tenes et possides et precessores tui tenuerunt et possiderunt ex concessione et confirmacione eis facta, videlicet a quondam rege Guillelmo rege Sicilie eisdem predecessoribus tuis graciose concessum, a quondam divo augusto domino patre nostro graciosius confirmatum. De quo nobis plene constat quod casale in Valle Melacii est cum omnibus iusticiis, teni- mentis et pertinenciis, salvo servicio quod curie nostre inde debetur. Concedi- mus etiam et plenam tibi tribuimus potestatem ut liccat tibi illos ad idem casale de mandato nostre Celsitudinis revocare, qui iure hereditario possessiones ibi habere noscuntur. Et si quis eorum illuc redire noluerit, potestatem habeas possessiones aliis tribuere, quos in eodem casali tuo volueris affidare; et man- no DUCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO DI dantes et firmiter iniungentes ut nullus contra hane nostram concessionem tam te vel heredes tuos impedire vel molestare presumat. Ad huius autem nostre concessionis memoriam et confirmacionis robur perpetuum valiturum, presens privilegium per manus Iohannis de Saneto Archangelo notarii et fidelis nostri scribi et sigilli nostri munimine iussimus roborari, anno, mense et indictione subscriptis. Datum Rome anno dominice incarnacionis MOCXII, mensis Aprilis, XV Iu- dictionis. Regni vero dicti domini nostri Frederici Dei gracia magnifici regis Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, in Romanorum imperatorem electi semper augusti, anno XV. Feliciter amen. Archivio di St. di Pal. Protonotaro, vol. 37. f. 43-44. G. L. Barberi nei Oupibrevia. (Vallis demine. f. 662 nello stesso Arch.) riporta alcune parole di questo documento. Federico II concede a Matteo di Monteregale il feudo di Gazzella nel territorio di Cosenza, il quale feudo era prima posseduto da Guidone de Pantosa tra- ditore della regia causa. Genova, maggio 1212, XV Indizione. In nomine Dei eterni et salvatoris nostri Ihesu Christi. Amen. Fredericus divina favente clementia rex Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Romanorum Imperator electus et semper augustus. Ad augumentum regii solii et regalis septri gloriam dignoscitur redundare quicquid suis subditis, quos fidei comendat integritas, a regia munificentia elar- gitur: tune enim excellentia regia digne laudis titulis sublimatur, cum subiec- torum suorum devociones clementer attendit et eorum servitia dignis retribu- tionibus reconpensat. Inde est quod nos habentes pre oculis fidem puram, de- votionem sinceram in nos et valde grata servitia, que tu Matthee de Monteregal vallette et fidelis noster celsitudini nostre ab annis teneris exhibere curasti et que indesinenter exhibere non cessas; considerantes etiam labores non modicos, quos in nostris perseverando servitiis substulisti, et volentes tibi tanquam be- nemerito providere in aliquo, in antea dante Domino liberalius provisuri, de gratia et consueta munificentia nostra concedimus et donamus tibi et heredibus tuis in perpetuum feudum Gazzelle in tenimento Cusentie cum omnibus iustitiis et rationibus suis, quod fenudum Guido de Pantusa proditor noster hactenus dignoscitur tenuisse; salvo servitio, quod curie nostre inde debetur, evacuantes omnes concessiones et privilegia, que eidem Guidoni vel alicui alii apparuerint inde facta. Ad buius autem concessionis et donationis mostre memoriam et inviolabile Ò 34 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO firmamentum presens privilegium per manus Nicolai de Petral. notarii et fidelis nostri scribi et maiestatis nostre sigillo iussimus conmuniri. Anno, mense et indictione subscriptis. Datum Ianue anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo duodecimo, mense Madii, quintedecime indictionis. Regni vero domini nostri Frederici Dei gratia magnifici regis Sicilie, ducatus Apulie et principatus Capue, Romanorum Imperatoris eleeti, semper augusti, anno quartodecimo : feliciter amen. Dal diploma originale esistente nell'Archivio del Duca di Monteleone in Palermo. Il diploma è inoltre riprodotto in un doe. di Federico III re di Sicilia presso lo stesso Archivio. VI. Federico II ad istanza d’Innocento ILL conferma i privilegi del convento di S. Salvatore in Messina. Hagenau, marzo 1216, IV Indizione. In nomine sancte et individue Trinitatis. Fridericus II divina favente cle- mentia Romanorum rex semper augustus et rex Sicilie. Laudabilia sunt in principe quelibet opera pietatis, sed illud laudabilius cre- ditur, quod sacrosanctis ecclesiis, viris religiosis et personis ecclesiasticis exhi- betur. Dignum enim est et Deo satis acceptum ut nostrorum largitate mune- rum (1) semper accrescat facultas ecclesiarum et que eis donata sunt et con- cessa et nostrorum privilegiorum munimine roborata, confirmata ratique habi- tione firmentur(2)in posterum, ut tractu temporis roboris obtineant firmitatem. Eapropter universis personis ecclesiasticis et secularibus maioribus et minoribus in perpetuum notum esse volumus quod Lucas venerabilis archimandrita Sancti Salvatoris Messane, fidelis noster, obtulit nobis litteras ex parte Summi Ponti- ficis, per quas monebat ut monasterium ipsum et fratres nostre protectionis mu- nimine tueremur (3) et authoritate regia subiectas et oblatas res et bona ipsius ab omni persona vendicaremus et illud plena faceremus restitutione (4) gau- dere. Propter quod idem archimandrita celsitudini nostre actensius supplicavit ut per hoc petitionem suam et apostolicas admonitiones admicteremus benigne. Nos autem actendentes salutaria monita sanctissimi domini et patris nostri summi pontificis; habentes quoque respectum in eodem monasterio et ad honestaten et religionem ipsius Luce venerabilis archimandrite et fratrum ibidem existen- tium Domino iugiter famulantium; et cognoscentes quod cuneta, que dieta sunt, ex privilegiis et bullis aureis et cereis felicis recordationis regis Rogerii et regis Guliermi primi et secundi et divorum augustorum parentum nostrorum et nostris concessionibus et muneribus sibi dudum confirmantur (5), eius (6) DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 35 supplicationes clementer admisimus et (7) ipsis indemnitatibus (8) salubriter in posterum providentes, de gratia et ex certa nostra scientia predieta omnia dieto monasterio Sancti Salvatores Messane donamus, concedimus et presenti privi- legio in perpetuum confirmamus; volentes et iubentes ut privilegia ipsa incon- cussa remaneant et de cetero inviolata serventur.... nullus temptaret vel aliquis presumeret se hiis opponere vel aliquatenus obviare. Iterato igitur statuimus et precipimus firmiter universis, ut quicumque aliquid detinet de monasteriis vel obedientiis sive quibuslibet rebus eiusdem monasterii, seu etiam de liber- tatibus et consuetudinibus terre marisque, sola presentis privilegii nostri demon- stratione contentus, id ad plenum restituat et ex toto dimittat ‘in eius dominio et ordinatione prelati et fratrum ipsius. Quod si quis temerarius de bonis ipsis presumpserit ulterius detinere vel contraierit presenti nostre maiestatis edicto, penam sui reatus centum libras auri componat, quarum medietas camere no- stre, altera vero iniuriam passis persolvatur. Ut autem hee rata et firma per- maneant presens privilegiom scribi et bulla aurea typario nostre maiestatis im- pressa precepimus conmuniti. Huius rei testes sunt Conradus Ratisponensis episcopus, Henricus Argentine episcopus, Ludovicus dux Bavarie, C. Dux Meranie, Hermannus marchio de Baden, Falsigravius: de Turingia (9), Walterus de Scipfe (10) pincerna, Ricar- dus (11) camerarius et alii quam plures. Signum domini Friderici secundi Dei gratia Romanorum regis semper augusti et regis Sicilie. Ego Conradus Metensis et Spirensis Episcopus et imperialis aule cancellarius vice domini Maguntini archiepiscopi et totius Germanie archicancellarii recognovi. Acta sunt hec anno dominice incarnationis 1216, mense Martii, IV Indictionis. Regnante domino nostro Friderico Dei gratia Romanorum (rege) semper au- gusto et rege Sicilie. Anno Romani regni ipsius IV et Sicilie XVIII: feliciter amen (12). Datum Agendos anno, mense et indictione prescriptis. Archiv. di Stato di Pal. Volume intitolato: « Monarchia di Sicilia» f. 219-20 ed altro volume intitolato : « Regiae Monarchiae Liber primus » f. 317-19. In quest’ultimo vo- lume il doc. si dice trascritto dall'originale in Messina il 1497 «anno Pontificatus sane- tissimi in Christo patris et domini nostri domini Alexandri divina providentia Papae VI » — Di questo doc. l’ Huillard - Breholles riporta le sole sottoserizioni. Hist. diplom. Frid. II. T. I. p. 447. Non ho seguito esclusivamente nessuno dei due testi per i molti errori contenuti in entrambi, ma spesso ho corretto l’uno coll’altro. Segno alcune parole dubbie od erratein ambedue. Mo) (1) Numerum. (2) firment. Credo che manchi qualche parola. (3) tuerem. (4) restitu- tionem. (5) confirmamus. (6) eiusque. (7) ut. (8) ipsius indemnitatis. (9) Salsagravius de Truxa. Pfalzgraf, comes palatinus. (10) Vendeppeli. (11) Rittus. (12) februarii anui. 36 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO VII. Federico II conferma a Soldano de Giraldo il feudo di Bucalcia, che gli era stato donato da suo zio Enrico de Luchecto. S. Lorenzo in Caramigiano (presso Foggia), agosto 1229, II Indizione. PFridericus Dei &raria Romanorum Imperator semper augustus, Ierusalem et Sicilie Rex. Per presens scriptum notum facimus universis tam presentibus quam futuris quod Soldanus de Giraldo civis Cathanie , fidelis noster, in nostra presencia constitutus magestati nostre humiliter supplicavit ut, quia Henricus de Lu- checto patruus suus donavit et tradidit eidem pro parte sua et Adelicie uxoris sue, neptis eiusdem Henrici, Casale Buchalcie nomine pheudi cum omnibus iusticiis et pertinenciis suis et racionibus, prout in publico instrumento inde facto plenius continetur, Casale ipsum sibi, uxori sue et eorum heredibus con- cedere et confirmare de nostra gratia dignaremur. Nos autem supplicacionibus suis favorabiliter annuentes, actendentes quoque grata satis et accepta servicia, que predictus Soldanus dudum nobis exibuit et que de bono in melius exibere poterit in futurum, dictum Casale eidem Soldano, uxori sue et heredibus eo- rum, prout ipsum idem Henricus eisdem tradidit et donavit et in publico in- strumento inde facto plenius continetur, concedimus et perpetuo confirmams, salvo servicio quod inde curie nostre debetur et salvo mandato et ordinacione nostra. Ad huius autem concessionis et confirmacionis nostre memoriam et ro- bur perpetuo valiturum presens scriptum per manus Stabilis de Castecto no- tarii et fidelis nostri fieri et sigillo magestatis nostre iussimus communiri, anno mense et indictione premissis. Datum apud Sanctum Laurencium in Carminano, anno dominice incarnacio- nis millesimo ducentesimo vigesimo nono, mense augusti. secunde indictionis. Imperante domino nostro Friderico Dei gracia invictissimo Romanorum Im- peratore semper augusto, Ierusalem et Sicilie Rege. Anno imperii eius nono, regni Ierusalem quarto, regni vero Sicilie tricesimo secundo. Feliciter amen. Archiv. di Stato di Pal. Protonotaro, vol. 21, f. 122. Nello stesso volume e foglio si legge un atto di « Iohannis de Romania Imperialis dohane de secretis et questorum magister » il quale a richiesta dello stesso Soldano de Giraldo in conformità «dei qua- terni imperiales de secretis in quibus fines omnium civitatum, castrorum, villarum et casalium Sicilie seripti sunt » determina i confini del feudo di Bucalcia. Seritto a Mes- sina, ottobre 1229. terza Indizione. — Il doc. poi è preceduto dalla donazione del feudo fatta da Enrico de Luchetto al nipote il 23 luglio 1228, alla quale donazione inter- viene « Dominum Adenulfum de Aquino, militem Domini Imperatoris, Contestabilem et totius Sicilie magistrum iusticiarium >. DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 31 VIII Federico II concede a Teodoro Sacho l’impiego di esattore della tassa (credenziere) per il peso della statera in Palermo. Foggia, agosto 1229, II Indizione. Fridericus Dei gracia Romanorum Imperator semper augustus, Iherusalem et Sicilie rex secretis et universis officialibus Sicilie ultra flumen Salsum tam pre- sentibus quam futuris, fidelibus suis, graciam suam et bonam voluntatem. Theodarus Sachus civis Panormi fidelis noster, in nostra presencia constitutus, Celsitudini nostre humiliter supplicavit ut officium ponderacionis statere nostre curie in Panormo sibi de nostra gracia concedere dignaremur. Nos itaque sup- plicacionibus ipsius Theodari fidelis nostri benignius adnuentes, de innata Celsitudinis nostre gracia, qua consuevimus fidelibus et benigne meritis provi- dere, dictum officium ponderacionis statere curie nostre in Panormo sibi et he- redibus suis in perpetuum duxit nostra Serenitas concedendum. Ad huius autem nostre concessionis memoriam presens scriptum sibi fieri et nostre magestatis sigillo iussimus conmuniri. Datum Fogie anno dominice incarnacionis MCCXXVIIII, mense augusti, se- cunde indictionis. Imperante domino nostro Friderico Dei gracia invietissimo Romanorum imperatore semper augusto, Iherusalem et Sicilie rege. Anno im- perii eius nono, regni Iherusalem quarto, regni vero Sicilie. XXXI. Feliciter amen. Avehiv. di St. di Palermo. Protonotaro, vol. 21. f. 187. Inserito in un decreto vice- regio del giugno 1420, nel quale si legge che Giovanni di Vanquerio « exhibuit et presentavit quoddam saerum regium preceptum invictissimi domini Friderici impera- toris — sigillo pendenti omnique debita sollempnitate vallatum.»— N’esiste un’altra co- pia nello stesso Archivio Conservatoria del Registro, vol. 4, della quale copia mi diede notizia il Cav. Can. Giuseppe Beccaria. La dimora di Federico in Foggia nell’ ago- sto 1229 sembra contradetta da Riccardo di S. Germano, il quale segna la resa di Foggia all'Imperatore non prima del marzo ‘250. E credo che per questa ragione il Ficker dissentendo dal Winkelmann sulla data d'un documento, nota che in questo «anwesenheit des kaisers zu Foggia erwàhnt wird, wohin er 1229 nicht kam. » Rege- sta Imperii, V, Boehmer-Ficker. I Abtheilung p. 355-6. Ma la contradizione cessa se intendiamo che nel marzo 1230 si arrese all’ Imperatore non la città, che s’ era data già prima, ma la fortezza di Foggia, della quale paria lo stesso cronista all'anno 1223: «in Gaieta, Neapoli, Aversa et Fogia iussu Cesaris castella firmantur». Quanto al vocabolo eredenziere (credencerius, che ricorre frequente nei vol. della Conservatoria del Registro del cit. Archiv. e ch'è erroneamente interpretato dal Ducange nel Glos- sarium mediae et infimae Latinitatis. Ediz. Niort. 1883, ad verbum Credentia n. 3 e Credencerii) e quanto all’ officina o cabella statere che certo per errore di stampa si legge in Huillard-Breholles « ius sfafure seu ponderature» (IV, p. 199) cfr. gli Atti della città di Palermo pubblicati da F. Pollaci-Nuecio p. 109-10. 38 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO TX. Federico II conferma a Ruggiero de Gervasio di Sciacca le terre, che il Re Ruggero aveva conceduto al padre di lui coll’obligo del servizio di un bale- striere a piedi per un mese. Palermo, ottobre 1233, VII Indizione. Fridericus dei gracia Romanorum Imperator semper augustus, Ierusalem et et Sicilie Rex. Per presens privilegium nostrum notum facimus universis fidelibus nostris fam presentibus quam futuris quod post solenne colloquium, quod Capue cele- bravimus, ubi de resignandis privilegiis universis edictum fecimus generale, Rogerius de Gervasio de Xacca, camere nostre vallectus , filius et heres con- dam Gervasii Ruffi militis fidelis nostri, nobis apud urbem felicem Panormi fe- liciter residentibus, coram nostra celsitudine constitutus unum privilegium de littera greca domini Regis Rogerii bone recordacionis, bullatum bulla plumbea ipsius (indultum quondam Gervasio Ruffo patri dicti Rogerii de Gervasio de concessione terrarum et tenimentorum Mizillacar et Chabuche sitorum in terri- torio xacce facta predicto condam (Gervasio et suis heredibus continentie infe- rius denotate) nostre magne curie resignavit; petens humiliter et devote quod sibi dictum privilegium grecum restituere et que continebantur in eo concedere et confirmare de speciali gracia dignaremur. Cuius quidem privilegii greci con- tinencia interpretata nobis fideliter per Notarium Nicolaum de Geracio seientem ntramque linguam et litteram, grecam scilicet et latinam (1).... intelleximus quod dominus Rex Rogerius felicis recordacionis concesserat et donaverat pre- dieto condam Gervasio et suis heredibus pro remuneracione servicioram suorum, que fideliter obtulit eidem regi, predicta tenimenta terrarum pro usu massa- riarum suarum et pascuis suorum animalium, que dicuntur Miziliacar et Chabuc, sita in territorio xacce cum iuribus, rationibus, pertinenciis et finibus contentis in eodem privilegio, salvo servicio unius balestarii peditis, quo tam (2) dictus condam Gervasius quam heredes eius facere tenebantur per mensem unum in Sicilia, tantum cum necessitas immineret. Nos autem ipsius Rogerii de Gerva- sio fidelis nostri supplicacionibus benignius inclinati, considerantes fidelia et grata servicia, que idem Rogerius domino Imperatori Henrico patri nostro re- colende memorie actenus contulit et in presenti celsitudini nostre confert et de bono in melius, dante Domino, conferre poterit in futurum, de innata cel- situdinis nostre gracia, qua consuevimus fidelibus et benemeritis providere, ipsi Rogerio de Gervasio dictum privilegium dicti regis Rogerii restitui fecimus graciose et que continentur in eo et sunt concessa per eundem dominum Re- gem Rogerium sibi et heredibus suis de speciali nostra gracia concedimus et de certa consciencia perpetuo confirmamus, salvo servicio, quo exinde curie nostre debetur, contento in privilegio supradicto et salvo mandato et ordina- ren DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 39 cione nostra. Ad huius autem restitucionis et confirmacionis nostre memoriam et inviolabile firmamentum presens privilegium inde scribi et sigillo maiestatis nostre iussimus conmuniri. Datum in urbe felici Panormi anno dominice incarnacionis MOCXXX tercio (3), mense octobris, VII Indictionis. Imperante domino nostro domino Friderico Dei gracia invictissimo Romano- rum Imperatore semper augusto, Ierusalem et Sicilie rege : imperii eius anno XIII. Feliciter amen. Archiv. di St. di Pal. Conservatoria del Registro vol. 4° f. 95. (1) Qui nel vol. cit. vi sono aleune altre parole sconnesse, forse perchè il copista saltò o ripetette un rigo: notarium fidelem nostrum, intelleximus diligenter contine- batur quod in eodem privilegio greco sit per eudem nostrum notarium. (2) tamen. (3) secundo. Federico II conferma a Ruggiero Marano della terra di Simeri (Calabria) la concessione fatta dal re Ruggiero agli antenati di lui. Lucera (?) 4 maggio 1231, IV Indizione. Fredericus divina favente clementia Romanorum Imperator semper augustus, Hierusalem et Sicilie Rex. Decet imperialis excellentie dignitatem fideles suos benigne respicere et eo- rum fidem puram et devotionem sedulam congruis beneficiorum largitionibus compensare. Inde est igitur quod cum Rogerius Maranus habitator terre Si- meri fidelis noster, presentato per eum culmini nostro quodam privilegio dive memorie Regis Rogerii avi nostri grece scripto, ipsius Regis consueta bulla plumbea munito, eiusdem Rogerii predecessoribus indulto, nostre supplicaverit maiestati, ut ipsum privilegium in nostra curia transcribi et de greco in lati- num mandaremus transferri.... Et concessionem dictis »vredecessoribus eius a predicto rege factam, prout fideli nostro, cum omnibus rebus in eodem din- stinetis privilegio, de speciali gratia et ex certa scientia confirmamus sibi et heredibus suis, perpetuo concedentes ut res ipsas habeat, teneat et possideat quomodolibet, officialium curie nostre molestia vel calumnia seu contradictione cessante, salvo mandato nostro et ordinatione nostra et heredum nostrorum. Tenor autem ceiusdem privilegii in nostra curia de mandato nostri culminis transeripti et de greco in latinum translati talis est. (Segue la bolla di Rug- giero del 6653 secondo la cronologia Bizantina — 1145 dell’era volgare). Datum Capue (?) anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo trece- simo primo, quarto mensis Madii, quarte indietionis; imperii vero domini nostri Frederici Dei gratia invictissimo Romanorum imperatoris semper augusti, Hie- 40 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO rusalem et Sicilie regis anno undecimo: regni vero Hyerusalem anno sexto : regni autem Sicilie anno tricesimo quarto. Feliciter amen. Bibl. Com. di Pal. Qq. G. 12 f. 277-81. Qui si dice che il doc. è preso dall’ Archiv. Gi Napoli. Registro del Re Roberto segnato 1315. lettera A. f. 17. XI. Federico II ordina al secreto imperiale Matteo Marchafabi di ricercare se l'abate del Convento di S. Salvatore di Messina aveva il diritto di nominare il baiulo del feudo di Bovalino ed Amendolea. Dopo varie ricerche il Secreto riconosce il diritto del Convento e dà torto al Fisco. Messina, maggio 1234, VII Indizione. Im nomine Domini nostri amen. Anno eiusdem incarnationis 1254, mense maij, VII Indictionis. Imperii vero domini nostri Friderici Dei gratia illustris- simi Romanorum Imperatoris semper augusti anno XIV, regni Hyerusalem anno VIII et regni Sicilie anno 37; feliciter amen. Cum nos Mattheus Marchafabi imperialis dohane Secretus et questorum ma- gister essemus apud Messanam pro servitiis imperialibus faciendis et utilitatibus imperialis dohane commode promovendis, recepimus sacras imperiales literas in hace forma : Fridericus (1) Dei gratia Romanorum Imperator semper augustus et Sicilie rex Mattheo Marchafabi dohane secreto et questorum magistro, fideli suo, gra- tiam suam et bonam voluntatem. Homines feudi Bubalini et Amigdalem, qui sunt de demanio nostro, fideles nostri, habitantes in terra Tucchi, que est terra Sancti Salvatoris de lingua Messane, significaverunt curie nostre quod temporibus regum felicinm predecessorum nostrorum antecessores eorum con- suevyerunt habere baiulum de curia nostra et ipsimet habuerunt post felicem coronationem nostram, qui inter ipsos pro parte curie nostre iusticiam observabat et finiebat iura nostra. Nune per archimandritam et monachos Sancti Salvatoris, expulso baiulo nostro, per eorum baiulum iura nostra faciunt dietis nostris ho- minibus exercere in nostrum non modicum preiudicium et gravamen hominum | predictorum. Cum igitur nolumus iura nostra ab aliquibus occupari, fidelitati tue firmiter precipimus et mandanus quatenus inquiri facias super premissis diligentius veritatem; et si rem inveneris ita esse, statuas supradictis hominibus nostris baiulum, sicut extitit consuetum, qui et ipsis iustitiam faciat et iura curie nostre procuret fideliter sicut debet. Datum apud Neocastra 15 februarii, VII Indictionis. Huius autem authoritate mandati, propterea quia imperialibus servitiis pre- dietis et discutioni predicte cause personaliter adesse non potuimus, Camerariis Calabrie domino Philippo de Loghoteta et domino Gregorio de Malgerio vicem DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 41 nostram in hac parte duximus committendam. Qui ad predietam terram Tuc- chi accedentes inquisitionem fecerunt, parte (2) ecclesie Sancti Salvatoris ab- sente, et per ipsam inquisitionem baiulos pro parte curie statuerunt in terra predicte Tuechi super hominibus predietorum feudorum. Unde pars monasterii ad nos accedens super hoc se proposuit gravatam, vidilicet quod predieti Ca- merarii in causa predicta non debuerunt (3) procedere, parte monasterii non citata; quare cum ipsa inquisitio minus legitime facta esset, cam revocari pe- tebat. De quo cum nobis constaret, quia vidimus ipsum monasterium aggravari, dictam inquisitionem duximus annullandam, (baiulos) statutos ab eisdem Ca- merariis in dieta terra Tucchi removentes et baiulum (4) prefato monasterio reddi- dimus, mandates ut omnia deducerentur in statum pristinum, prout retroactis temporibus esse consueverunt. Et iterate vices nostras commisimus prudenti viro domino Petro de Mele ut ad terram predietam personaliter se conferret et in predicta inquistione procederet secundum iustitiam et formam imperialium literarum, constitutis a nobis pro parte fisci procuratoribus (5) domino Philippo de Loghoteta et domino Gregorio de Malgerio camerariis. Prefatus vero domi- nus Petrus de Mele ad predietam terram Tucchi se personaliter contulit et presentibus predictis procuratoribus, cum advocato fisci presente et frate Pannucio Sindaco monasterii, super predietam inquisitionem diligenter inquisitionem fecit et testes ab utraque parte productos recepit et ipsam inquisitionem et dicta testium dictus dominus Petrus de Mele nobis sub sui sigilli munimine destinavit. Qua inquisi- tione nublicata et de ea utrique parti copia facta, quia vidimus quod ex parte fisci nihil de dieta intentione sua fuit probatum et pars monasterii per testes et privilegia domini regis Rogerii et domini regis Guliermi felicis memorie, a quibus predicta Tucchi dicto monasterio fuit indulta, sufficientius probavit quod omnes homines, qui in ipsa terra Tucchi habitant, in banco ecclesie iu- dicantur ; habito consilio magnifici Enrici de Tocco, magne imperialis curie iudicis, magnifici Gandulfi (6) Pineti nobis imperialis dohane assidentis, ma- gnifici Rogerii de Cathania et domini Philippi de Diana Granata iudicis Mes- sane, virorum prudentum, prefatum Sindacum nomine monasteri prefati a dieta impetione absolvimus. Unde ad securitatem et defensionem predicti monasteri- presens scriptum sibi fieri fecimus subscriptionibus nostra et predietorum iudii cum roboratum. Scriptum Messane anno mense et indictione premissis. Ego Mattheus Marchafabi imperialis dohane. Ego Henricus de Tocco magne imperialis curie index. Ego Gandulfus Pinetus imperialis dohane assessor. Signum proprie manus predicti domini Philippi de Diana Granata iudicis Messane. Archivio di St. di Pal.— Vol. Monarchia di Sicilia f. 264-5 e Regiae Monarchiae Li- ber primus f. 370-3. Di questo diploma |) Huillard-Breholles riporta la sola data senza indicazione di luogo (Hist. diplom. Frid. II, Tom. IV. p. 463). (1) Rex. (2) partes. (3) Reg. Mon. potuerunt. (4) Mon. di Sic. suzinam baiulorum. 5) Procuratoris. (6) Reg. Mon. Pandulfi e più sotto nelle sottoscrizioni Landulfus. 6 42 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO XII. Il giudice Imperiale della provincia di qua dal fiume Salso in Sicilia scrive a due motai di Aidone perchè gli mandino copia autentica d’ un do- cumento. Piazza Armerina, giugno 1247. In nomine Dei eterni et salvatoris omnium Iesu Christi amen. In anno sue salutifere incarnationis millesimo ducentesimo quadragesimo septimo, die Iovis sexto Iunii, amen. Imperante domino nostro domino Friderico (1) Dei gratia excellentissimo Romanorum Imperatore semper augusto, Hierusalem et Sicilie gloriosissimo rege : anno sue sacre coronationis vigesimo septimo: feliciter amen. Nos notarius Simon de Agio iudex super conficiendis concertibus in Aydona, Rolandus de Machio de fessina (?) publicus eiusdem terre notarius per presens scriptum publicum notificamus universis, quia a nobili viro domino Vicali de Xacca Imperiali magistro Provincie in Sicilia citra flumen Salsum mandatum accepimus, hoc vidilicet: Presidentibus viris Simoni de Hagio iudici concertuum in Aydone et notario Rolando publico eiusdem terre notario suis, sicut fratribus, amicis Iudex Im- perialis magister Provincie citra flumen Salsum salutem et sincere dilectionis affeetum. Cum honestus vir Frater Burgundus electus monasterii Sancti Philippi ‘de Argirio in nostra presentia constitutus decimas de collectis terre predicte ad nostrum spectantibus officium pro anno etc. prout eas actenus consueverit... habere, a nobis sibi petierit rehaberi et requisitus a nobis ut de veritate (2) litteris (3) doceret, si decime ipse fuerunt debite, consuete, ut exposuit, mona- sterio predicto, quoddam privilegium de prefatis asseruit se habere. Quod ad ratiocinii cautelam vidimus necessariam publicationem, ut ad exibitionem de- cimarum ipsarum prout iustum fuerit per modum procedamus, probitati ve- stre ex Imperiali parte, qua fungimur auctoritate, mandamus quatenus, viso instrumento ipso quod dictus electus obtulit se vobis ostendere, formam ipsius de verbo ad verbum sumptam de autentico, in seripturam publicam redigatis quod assignetis eidem nobis per modum transmittendum, in quo scribi faciatis duos vel tres testes idoneos, quos vobiscum publicationi predicte volumus in- teresse. Datum Placie, quinto Iunii etc. Ad cuius executionionem prompto animo intendentes, adibitis nobiseum notario Aydona Scupina, notario Rogerio de Milite, notario Guilelmo de Duranto et notario Iosepho de Moro testibus «ad hoc specialiter vocatis, ac constituto deinde coram nobis domino Burgundio ven. electo monasterii S. Philippi et per eum nobis quodam instrumento oblato, per quod ad ostendendum de suo iure prescripto intendit, ipsum recepimus. Et quia in prima sui figura non cancellatum, non abbolitum, non in aliqua parte DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 43 sui vituperatum invenimus, ipsum de verbo ad verbum nihil addentes, nihilque minuentes seu mutantes in presens publicum instrumentum fideliter duximus transferendum. Bibl. Com. di Pal. Qq. H. 10. f. 92.—Ms. del secolo XVII. — Nei documenti vi è qual- che ricordo del 2udex magister d’' una città, ma credo che questa sia l’unica carta sinora pubblicata, nella quale comparisca un 7udee magister provincie. Della prima qualità di giudice si fa menzione in due doc. del 1224 (Huillard-Breholles. Il. 382 e 425-7) e a mio parere si spiega bene con la costituz. Occupatis, che secondo il Capasso fu la prima delle riforme fatte al codice di Melfi (Capasso. Stor. esterna delle costituz. di Fed. II. p. 32), e che dispone, non dovervi essere in nessuna città più d’un baiulo e d'un giudice di cause e di tre giudici di atti o notai, salvo le città di Napoli, Mes- sina e Capua. Si vede che prima di questa costituzione nelle città, che avevano più giudici, vi era anche un magister iudex, oltre del baiulo. Anche il Ficker, erede che questa espressione significhi il giudice superiore d’una città (einem obersten Stadtrichter. Forschungen ete. I, 394). — L'ufficio poi di magister iudex provincie eredo che indichi il reggente d’un ufficio di camerario, quando per qualsiasi motivo vi mancasse il titolare. (1) Nel vol. cit. Ferdinando. (2) vere. (3) lras. Federico II ordina ‘al giustiziere e al maestro Camerario di qua dal fiume Salso in Sicilia di ricevere nel demanio regio il casale di S. Lucia offerto dal capitolo e vescovo di Patti e di dar loro in cambio un’altra terra dello stesso valore. Benevento 17 giugno 1249, VII Indizione. Guglielmus Villanus iustitiarius et Iohannes de Plutino Imperialis magister camerarius in Sicilia citra flumen Salsum ete. A domino nostro serenissimo principe sacras nuper recepimus litteras in hec verba : Fridericus Dei gratia etc. Guglielmo Villano Iustitiario et Iohanni Plutino ete. Supplicaverunt celsitudini nostre venerabilis Pactensis Episcopus et Capitulum eiusdem, fideles nostri, quod pro Casali S. Lucie, quod est in plano Mellatii et ad ecclesiam Pactensem pertinet, mandare dignaremur eisdem competens ex- cambium dari in Valle Demine, quod esset ipsi Ecclesie ratione vicinitatis uti- lius, et casale predictum, cum sit nostris solatiis utile, mandaremus in mani- bus nostre curie retineri. Nos autem predictorum Episcopi et Capituli supplica- tionibus inclinati fidelitati vestre precipimus quatenus Casale predictum pro parte nostre curie recipiatis et tu, magister Camerarius, illud pro curia nostra procures. Imvenietis locum alium in Valle Demine solatiis nostris nee castro- rum munitionibus deputatum, de quo pro predicto Casali provideatis predicte 44 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO Ecclesie in excambio competenti. Quidquid autem de predictis feceritis, Culmini nostro vestris litteris intimetis. Datum Beneventi, septimo decimo Iunii, septime indictionis (1249). Bibl. Com. di Pal. Qq. G. 12 f. 119. Nel giudizio della Gran Corte Imperiale del dicembre 1250 (Huillard - Breholles. VI, 802) si allude a questa lettera. Of. Regesta Imperii. V. p. 680. 5 XIV. Il maestro Terrisio commemora ai suoi colleghi dell’ Università di Napoli il maestro Arnaldo Catalano morto d° apoplessia, al quale la conoscenza delle leggi della natura e dello spirito umano mon seppe far prevedere il giorno e il modo della morte. Neapolitani studii doctoribus venerendis magister Terrisius eorum minimus non plus sapere quam oportet. Inter magnicolos philosophie proceres, quos Italia fovet et nutrit, magister Arnaldus Catalanus non infimus, paulo ante multo sciencie vestitus honore, in punto, sicut vidistis, miserabiliter expiravit; cuius ossa et cineres urbs ista servat Neapolis, spiritus autem, cum de filiis Ade fuerit, sursum ascendit, uti- nam ad patriam paradisi. Ad cuius transitum, licet impresencialiter, forte ob- scurata sunt sydera, quorum semitas edocebat; elementa concussa sunt, circa que sua intencio versabatur; ipsa eciam natura turbata, nam ipsius archana humanis mentibus inserebat. Que nimium peccasse videtur, quia suum non de- fendit actorem, qui animam suam posuit pro natura et mirum in modum, quod cum sue resolucionis tempore de anima disceptaret, uno solo momento suam sibi animam non potuit retinere; que ad minus sui discessus tempus debuit presignasse, ut non videretur in se ipsam tanto laboris opere consumsisse. Le- gitur enim Martinum longo tempore ante sui obitum prescivisse , sed tantus magister suum finem penitus ignoravit. In quo ex parte docemur quod anime racionalis cognicio aput philosophos recta non fuit: cui precepto plus redigit, quanto subtilius indagatur, iuxta illud : accedat homo ad cor altum et exalta- bitur Deus. Discite ergo, prudentes huius seculi, discite vos, magistri, quod solus Deus potens est de lapidibus filios Ade suscitare. Discite quod per se nihil sydera possunt. Discite quod elementorum racio in eo solo consistit, qui suum mundum perpetua racione gubernat. Discite quod natura sui iuris non est. Di- scite quod ancilla nostri corporis suo Domino stat et cadit. Actendite desuper quod tantum unusquisque scire comprehenditur, quantum sancti Spiritus gracia “subministrat: quod nemo potest dicere Ihesum (1) nisi in Spiritu sancto. Ac- tendite quantum sit amara mortis memoria. Actendite ut colligatis novissima, que purgantur secundum quod legitur: memorare , fili, novissima tua et in Tr _ —__————kkRR1—— DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 45 eternum non peccabis. Quis enim novit si spiritus filiorum Ade ascendat sur- sum et filii inmentorum descendant deorsum? Non Socrates, non Plato nec filii tenebrarum. Doctor predoctus — studii fornace recoctus, Cui patuere vie — tocius philosophie, Arnaldus dictus — mortis certamine victus, Hic iacet astrictus — et vermibus ipse relictus. Quem (2) non potuerant — concludere mille sophiste, Respice quo baculo — Doctor concluditur iste. \ Codice cartaceo del secolo XIV intitolato: Cronaca Svevo - Angioina; e conservato nella Biblioteca del Principe di Fitalia in Palermo. f. 59. Il doc. ha questa intestazione: Epistola consolatoria de morte magistri Arnaldi Catalani philosophi, qui ignoravit diem et finem mortis sue — Quanto al maestro Terrisio cf. Riccardo di S. Germano « magistrum Terrisium de Atino». Mon. Germ. Hist. XIX, 375. « Terrisius solo nomine docens ma- gister, homo qui loquitur veritatem». Così lo stesso Terrisio serive di se agli studenti Bolognesi sulla morte del maestro Bene, in una lettera, che prima era attribuita a Pietro della Vigna. L'Huillard-Breholles riproducendo questa lettera (Vie et correspon- dence de Pierre de la Vigne. Parigi. 1866, p. 300) dice di seguire a preferenza il codice Fitaliano « più esatto e completo degli altri» ma se ne discosta. Così invece delle pa- role ora riferite egli legge: « Terrisius solo nomine d7ctus magister, homo qui sequi- tur veritatem». Un'altra lettera di Terrisio fu pubblicata dal Winkelmann: Acta Im- perii inedita. Innsbruck 1880 p. 570. Del maestro Arnaldo Catalano filosofo non m'è riuscito di trovar notizia. All’ epistola di Terrisio segue nel cod. Fit. un discorso di Crissius de Fulgineo sulla morte dell’ astronomo Guglielmo de Luna «qui preseivit diem sue mortis». Questi è forse quel Cris7us, di cui si riporta una sentenza. nelle Constitutiones summarie et gabellarum regni Sicilie : « Sicilia mater tirannorum, dicit Crisius : diligit nova et novitates amplectitur >. Huillard-Breholles. Hist. diplom. IV, 253. (1) Nel cod. ihm. (2) Cui. XV. Il maestro Terrisio dell’ Università di Napoli compose questo discorso e i ver- setti per indurre gli scolari a furgli dei regali mel principio della quaresima. Vobis presentibus ex parte loquentis vitam cum laude. Honestissima res est et omni laude dignissima ut egregiis doctoribus, qui adoperta misteria retegunt, omnis reverentia debeatur, ron nuda vel sterilis, non vocalis, sed letis fructibus gratiosa (1). Hii sunt enim qui faciunt adesse bonum (2), qui perficiunt imperfectum , quibus tanquam veris opificibus sua debent opificia respondere, non aliter quam suo vinea plantatori. Placeat ergo universis et singulis, ut Magister Terrisius, cui nomen est terroris, ad cuius 46 DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO propositionis mensam cotidie, ut reficiamur, accedimus, nostris debeat deliciis recreari, quatemus sue fecunditatis ubera ulterius nobis exuberent et clausa (3) problemata nostris sensibus facilius resentur. Est honestum et est bonum Ut Magistro fiat donum In hoc carniprivio, Qui nos pascit et repascit In suo convivio. Ipse prebet lectiones; Et nos pingues huic capones Apportemus singuli, Ut a fonte fecundemur Nos qui sumus rivuli. Ergo........ quale donum Sibi fiant dona caponum, Per que ferventem Possimus habere.................... daN docentem. \ Codice cit. del Principe di Fitalia, f. 87. Vi è questa rubrica: Magister Terrisius composuit hane epistolam et versiculos ad inducendum scholares ad faciendum sibi exenia in carniprivio. Nel cod. non tutti i versetti sono divisi nel modo che abbiamo tenuto, ma aleuni scritti di seguito : però le strofe evidentemente imitano qualche canto goliardico. — Il Sarti nell’opera: De claris Professoribus ete. (Bologna 1769) riferendo le parole di Odofredo sugli scolari che stentavano a pagarlo, crede che sarebbero lette con piacere dagli amatori delle antichità scolastiche (quae libenter legentur ab antiqui- tatum scolasticarum amatoribus) p. 150. Spero la stessa cosa delle strofe di Terrisio. (1) Nel cod. grosa. (2) bn. (3) ca. XVI. Si deride è Professori dell’ Università di Napoli, che insegnavano parole e non fatti e volevano assai denari dagli allievi. Viris prudentibus reverendis doctoribus Neapolitani Studii Alexandrina et Papiana Capuana .voluptatum magistre salutem et fervorem libidinis petulantis. Regula iuris habet quod ea, que communia sunt, titulos non suscipiunt divi- sivos nec debent dici mea que nostra sunt tam iure naturali quam iure gentium, quo vivimus et regnamus. Evidens siquidem est et manifestis patet indiciis quod universi scolares Neapolitani nostre sunt iurisdicionis, nostris sunt subditi documentis. Quibus etsi vos presidetis de die, nos presidemus de nocte, circa quos multis vigiliis et laboribus desudamus. Omnia namque tempora propriis fi- nibus terminatur; nec solus dies labori debetur, cum ipse noctes determinatas DOCUMENTI INEDITI DEL TEMPO SVEVO 47 habeant actiones, iuxta illud propheticum: media nocte surgebant ad confitendum tibi. Cui similiter consonat illud aliud documentum : Media nocte clamor factus est, ecce sponsus venit, exite obviam ei. Que duo inviolabiliter actendentes non solum media nocte sed singulis horis parate sumus ad suscipiendum non solom unum sponsum sed multos, accensis lampadibus nostris, que nullatenus extinguuntur. Verum condicioni nostre multum detrahitur et nostra in duobus auctoritas pregravatur, primo cum scolares ipsos, nostros et vestros, tam diu circa verba et voces inutiliter delineatis, cum philosophia non verba requirat sed facta; quia cum ventum est ad scolas nostras, in quibus est realis discussio veritatis, vix possunt aurire aliquid de cisterna veteri et de profundo puteo voluptatis, ad lectionem unicam fatigati. Sed vos, secundario , in exactionibus et collectis vestris ita denudatis eosdem, quod facti sunt non solvendi; et sic evacuato in nobis meretricio nomine, mercedem, quam meremur, non possu- mus obtinere. Dudum enim, sicut quidam vestrum bene recolunt, multa nobis prosperitas arridebat. Nam aurum, argentum, codices et digesta, decreta cum decretalibus in nostros thalamos veniebant. Nunc autem nudus Porphirius, men- dicus Aristoteles, apostata Prissianus, quaterniones et veteres scartapelli eisdem thalamis inferuntur. Cum igitur nemo cum aliena iactura locupletari debeat, a predicto, si placet, gravamine desistentes, que sunt communia nobis et vobis, communi et equali participio sortiamur. Cod. cit. del Principe di Fitalia f. 94-5. Pubblico questo documento perchè l’ ho tro- vato unito nello stesso codice alle carte Sveve; e, valga anche per me la scusa: « Met- tendolo Turpino, anch'io l’ho messo ». Segue nel cod. la risposta dei dottori Napoletani «alle figlie di Putifarre.» Giuseppe Paolucci. IL LAVORO DELLA CIVILTÀ PAR LA PACK DI UNA RECENTE OPERA DI UN GIURISTA TEDESCO LETTURA fatta alla R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti nella tornata del 30 dicembre 1894 Can. Dott. SALVATORE DI BARTOLO IE GO fi Tea { di = : = ri 3 È SI o ag i - ; () > T_T TTT T_TTT_T—<© K_T_TP__XWX_-XKX-AKAXKXxKxr-xF_,---X--<-<- HImi Accademici, Voi conoscete pur troppo quanta importanza si dà oggigiorno agli studi storici, e come multiplici e direi innumerevoli siano le pubbli- cazioni, che si riferiscano agli svariati elementi, onde ha risultato la vita intellettuale e morale delle nazioni. Se non che possiamo assor- gere, esaminati i fatti più rilevanti, a principi superiori, che costitui- scono quella che vien decorata col nome di Filosofia della storia. La Filosofia della storia è una scienza complessa ; ella sa staccare. dai fatti un principio elevato, nobilissimo la Civiltà, la quale ha potuto costituire, sotto l’analisi di elette intelligenze, un obbietto di speciali studi, che hanno illustrato 1’ uman genere, e reso celebri gli autori, che si sono occupati della Civiltà medesima nelle varie sue applicazioni. Basterebbero nel nostro secolo le splendide opere del Guizot Histoire de la civilisation en France— Histoire de la civilisation en Europe per provare l’importanza e la larga influenza della Civiltà. Se non che l’esposizione del lungo, paziente e perseverante lavoro della Civiltà, attraverso i vari secoli dell’ éra volgare, per raggiun- gere lo scopo della pace, senza la quale tutto è disordine, è stato il tema, che si è proposto un insigne Dottore in Diritto dell’ Università di Wurzburg. Egli è Ludovico Huberti, che nell’ anno 1892 metteva alla luce un primo volume di un’ opera, a cui dava il titolo Studien zur Rechtsge- schichte des Gottesfrieden und Landfrieden (1). Sono studi sulla storia del (1) Gli si è fatta colpa che le sue siano ripetizioni. Ma non è condannevole un au- tore perchè raccoglie in uno i suoi lavori parziali già stati da lui messi alla stampa. 4 IL LAVORO DELLA CIVILTÀ PER LA PACE Diritto relativo alla pace di Dio e alla pace territoriale. E un primo volume, che si limita alla Francia; son promessi un secondo volume, che si occuperà dell’Inghilterra, della Normandia, della Fiandra, del- l’Italia e della Spagna, un terzo finalmente che si occuperà della Ger- mania. Nella nostra penisola siffatto lavoro dell’Huberti mi pare poco od affatto noto, appena la Cultura ai 29 maggio 1892 die’ notizia del primo volume già pubblicato con queste poche ma succose parole: è una prima opera critica e completa. È Sta bene che noi italiani, nella gran patria del Diritto ci mostriamo nella repubblica scientifica conoscitori di un lavoro di cotanta impor- tanza; ed io nel mio amore a tener alta la reputazione della nostra Ac- cademia ho voluto studiarlo, analizzarlo, e darne a voi che coltivate gli studi storici e giuridici, piena ed intera contezza. In questo primo volume l’autore si propone raggranellare tutti i do- cumenti originali, che nel Medio-Evo e nella Francia manifestano gli sforzi fatti dagli uomini di buona volontà, per contrapporre la pace sotto forme svariate alle tendenze brutali delle guerre sian fra popolo e popolo, sian benanco fra privati. È un bel panorama che fa onore all’ umanità, la quale non è dan- nata al pessimismo, e fa onore alla pazienza e all’accuratezza dell'autore. I grandi storiografi Muratori, De Marca, Mansi, Arduino, Labbe e Cossart, Pagi; i grandi collettori di antiche leggi Boret e Krause, Giu- risti, Annuari, Cronache sono sotto gli occhi di lui, e da loro ei cava tesori poco noti ai cultori medesimi delle storiche discipline. Questo ben ponderoso volume è diviso in due sezioni: la prima è : Le paci ecclesiastiche e la pace di Dio « Die Kirchlichen Frieden und der Gottesfrieden »; la seconda: Le leggi di pace dei re francesi « Die Frie- densgesetze der franzòsischen Kénige ». Ogni sezione risulta di capitoli e di moltissimi paragrafi. Egli si occupa del Medio-Evo, e precisamente l’ultimo paragrafo della seconda sezione arreca un ordine di Francesco I re di Francia (ago- sto 1546) in favore della pace. La Civiltà, a dire il vero, promuove mai sempre la pace con un lavoro interiore nelle umane società e con un lavoro esteriore; 1’ Hu- berti come storico si attiene alla manifestazione del lavoro esteriore, ma non negheremo noi che sia benanco necessario l’ interiore, anzi questo debba precedere ed essere di fondamento ad-ogni esteriore lavoro. Quella somma di principi, che costituiscono il tesoro preziosissimo del genere umano, che l’ illuminano , lo guidano sulle vie del vero e del giusto, sono stati mai sempre in seno all’umanità medesima, e per IN OCCASIONE DI UNA RECENTE OPERA DI UN GIURISTA TEDESCO 5 riferirci ad epoche non molte remote, 1’ impero romano si era fatto maestro ai popoli nello svolgimento del Diritto in tutte le sue appli- cazioni; ciononostante i vizii ond’era corroso, gli scandali della corte imperiale, l’ enormità legalizzata della schiavitù aveano ecclissato di molto lo splendore dei supremi principi del Diritto, era d’uopo, accioc- chè l’umanità non fosse travolta ed immiserita negli errori più stoma- chevoli, che un’infusione di vita novella si riversasse nelle viscere del convitto sociale. Il Cristianesimo, non c’è filosofo che lo neghi, ritemprò di nuovo vigore la Civiltà; il Cristianesimo è una somma di principi civilissimi : l’amore reciproco, la fratellanza, l'uguaglianza di tutti gli uomini. Questi prin- cipi diventavan come il pane di tutte le intelligenze, il sentimento di tutti i cuori. È questo il lavoro interiore della Civiltà, e tal lavoro interiore si estrinsecava: ecco il valore dell’ opera dell’ Huberti. Egli ci appalesa gli organi che adoperò la Civiltà; i paragrafi multiplici degli Studien zur Rechtsgeschichte der Gottesfrieden und Landfrieden ci presentano tutti gli svariati fatti, che armonicamente e mirabilmente convergono a rinvigorire la pace. Gli organi, onde la Civiltà manifesta l’opera sua a favore della pace, secondo gli elementi storici presentati dal Dre Huberti, sono: il clero, il popolo, la dignità regale, il Diritto pubblico. Quant'è larga l’influenza della Civiltà! OC’ è da consolarci in mezzo alle tempeste del periodo delle invasioni barbariche, fra le angherie del feudalismo , nel turbolento vigoreggiar dei Comuni, nello stabili- mento delle monarchie : le violenze si svegliavan da ogni lato, il diritto, ch’è tutto 1’ uomo, era ad ogni pie’ sospinto vicino a soggiacere, ma la Civiltà restava viva, anzi ringiovanita per l’impianto del Cristiane- simo, e la Civiltà allargava perseverantemente la sua influenza, e si avvaleva di tutti gli elementi, onde risulta un popolo. La Civiltà si avvaleva del clero, maestro di una religione che ste- nebrava errori e predicava la carità, si avvaleva del popolo, il quale si elevava alla conoscenza dei suoi doveri come dei suoi diritti, si av- valeva della dignità regale , che non era più dignità di semideo, ma era servigio pel bene di tutti, si avvaleva del Diritto pubblico, il quale doveva smettere abusi consacrati dal tempo, ma già condannati per la potenza d’idee nuove. L’Huberti arreca documenti interminabili per addimostrarci il clero intento attraverso i secoli allo scopo della pace (1). Permettete che io (1) L'autore è accusato di plagio, ma è facile accusar di plagio un collettore di do- cumenti. 6 IL LAVORO DELLA CIVILTÀ PER LA PACE compendii in pochi e spiccati concetti ciò che sorge dalla serie dei documenti storici direi affastellati nell’ opera di Huberti, (1) e faccio mie al proposito le succose parole dell’avv. Ernesto Sémichon, che si occupò degli sviluppi del Terzo Stato in Francia. «Qual forza allora (nel Medio-Evo) poteva bastare per costringere i signori, i grandi feu- datari che camminavano a livello dei re ? Il problema sembrava inso- lubile ; la Chiesa lo risolvette. Se noi ci riportiamo a quei tempi, il pensiero fu audace; la Chiesa giudicò che vi fosse dopo Dio qualcuno, che fosse più forte dei più forti: era- tutto il mondo, essa fece appello a tutti. Essa trovò, per far rispettare i decreti della sua giustizia e i patti della pace, una forza nell’associazione dei suoi figli di ogni con- dizione, di tutti gli uomini di buona volontà, che ascoltassero la sua voce » (2). Ecco lo spirito dei decreti ecclesiastici relativi alla pace, attraverso i secoli del Medio-Evo : raggruppare i credenti e legarli con sacra pro- messa di non far guerre. E a questo scopo i Vescovi nei sinodi, iSommi Pontefici nei Concilii o nelle Decretali ricorrono ai grandi motivi, che dà una religione di carità, non che alle pene spirituali ordinate a ricor- -dare efficacemente le promesse ai fedeli. Enorme numero di documenti adduce 1’ Huberti che si riferiscono alla famosa Tregua di Dio: dolce reminiscenza dei secoli del Medio-Evo, che una voce solenne in Italia ha pur ripetuto contro le nostre citta- dine discordie. Era quasi impossibile impedire le guerre, ecco la Chiesa escogitare un modo ingegnoso e pio di raffreddare il calore belligerante. La Trequa di Dio solamente è stato obbietto d’importanti monografie, quali quelle del Guépratte e del Sémichon, se non che l’Huberti se ne occupa di molto, rassegnando i documenti originali al proposito. Il concetto della Tregua di Dio era: limitazione imposta ai signori, ai possessori di feudi circa la durata delle loro guerre. Il 16 maggio del 1027 fu tenuto un sinodo nella diocesi d’Elne, nel campo di Tulujes in Roussillon; in esso, presenti il clero col suo vescovo, i fedeli uomini e donne, fu stabilito che nessun di loro assalirebbe il suo nemico dall’ora nona del sabato all'ora prima del lunedì, acciocchè ogni uomo bene osservi il giorno di domenica «ut omnis homo per- solvat debitum honorem diei dominico ». Il $ 10 di questo medesimo Capitolo secondo è ricchissimo di notizie (1) Ho detto affastellati, perchè il difetto, che può notarsi nell'opera, è una man- canza di ordine. (2) La paix et la Trève de Dieu, chap. 1. Paris, Didier, 1857. IN OCCASIONE DI UNA RECENTE OPERA DI UN GIURISTA TEDESCO 7 al proposito, ha per titolo: La propagazione della Tregua di Dio, «Die Weiterverbreitung der tregua Dei». È insigne la parenesi che i vescovi Raimbaud di Arles, Benedetto di Avignone, Nitard di Nizza, l’ab. Odilone diressero a tutti gli arcive- scovi, vescovi, sacerdoti e laici dell’Italia, è splendida di carità; è però da notare che la Tregua comincia ad allargarsi dai vespri del merco- ledì all’alba del lunedì : i misteri del Cristianesimo, che si commemo- ravano in quei gioTni della settimana costituivano un validissimo mo- tivo a desistere dalle armi. In Borgogna, a Montriond, a Saint-Gilles, a Nîmes, ad Albi, a Gerona, a Besalu, nella Narbona, a Tolosa si promulgavano le medesime ordi- nanze della Tregua di Dio. Quest’intervallo dava tempo a che sbollis- sero le passioni, si componessero i dissidi. Ecco il lavoro lento e perseverante della Civiltà in favore della pace. Ma l’Huberti è instancabile nell’arrecare i documenti, sulla cui au- tenticità non di rado disputa con molta critica. Un numero importante di Romani Pontefici non che di Concilii gene- rali dispiegano la loro autorità per eliminare od almeno limitare la guerra, e per aprire il campo al dominio della pace. Il nostro Autore titola il S 13 Concilii generali di pace e decreti ponti- fici di pace « Allgemeine Friedenskonzilien und pàpstliche Friedens- dekrete ». Son rassegnati Giovanni XIX, Benedetto IX, Alessandro II, Leone IX, Niccolò II, Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II, Callisto II; eglino emanano decreti, o dalla sede di Roma, o nei Concilii: e nel $ 14 susseguente l’ Huberti ci espone La pace di Dio nella sua efficacia di fatto « Der Gottesfriede in seiner tatsàchlichen Wirksamkeit». Evvi una moltiplicità di lettere, che sono l’applicazione delle dottrine di pace, e tra queste molte d’Ivone il quale parla all’Arcivescovo di Sens della pace come di una legge pontificia « secundum costitutionem pacis, son sue parole, quae a domno Papa omnibus gallicanis ecclesiis in- ducta est». Alla perfine il:chiericato aveva fatto il suo lavoro, la Civiltà voleva sovraneggiare : ecco i Concili, che obbligano nel modo più solenne tutta la Cristianità, ratificano la Tregua di Dio, e la danno come pre- cetto della Chiesa. I testi di siffatti Concilii che sarebbero il Lateranese I sotto Callisto II, il Lateranese II sotto Innocenzo II, il Lateranese III sotto Alessandro III sono riferiti nella loro integrità e comentati coi Cronisti del tempo dal nostro Huberti nel $ 15 dello stesso capitolo secondo sotto il titolo : La pace di Dio come precetto generale della Chiesa « Der Gottesfriede als allge- meines Gebot der Kirke. » 8 IL LAVORO DELLA CIVILTÀ PER LA PACE Il clero primo strumento di Civiltà in favore della pace; ecco il suo lavoro attraverso i secoli esposto con tutte le particolarità nell’ opera tedesca, di cui facciamo recensione. La Civiltà non si arresta a questo strumento, vuole imbevere il po- polo dei sentimenti pacifici, epperò come il popolo comincia ad aver coscienza di sè, comincia ad apprezzare la pace, ch’è, giusta una sa- piente definizione, tranquillitas ordinis. Il nostro Dottore nei vari paragrafi del primo capitolo ci presenta i documenti, i quali provano il risveglio del popolo a costituire le asso- ciazioni, in cui i membri si obbligavano al mantenimento della pace. Ecco la dilatazione della Tregua di Dio, o la temporaneità che si tras- forma in perpetuità. È indubitato che siffatte associazioni spesso non asseguirono lo scopo, come le leggi della Chiesa non furono sempre eseguite; ciononostante le associazioni, a cui accenniamo , influirono potentemente a calmare o spegnere le vendette cittadine, e ad ispirar l’amore della pace. Furon sinanco delle città, le quali s’ imposero la legge di non far guerra, e si riscuoteano dei tributi coi nomi di paziagium o pariagium od ancora di compensus, commune pacis e simili, per pagare coloro, che avrebber custodito gli ordinamenti della pace. Com’è gradevole l’apparizione dei Comuni nel sec. XII, ch'è l'epoca della virilità dei popoli europei all’ ombra delle associazioni di pace ! Anzi più o meno chiaramente i Comuni nascono da queste associazioni pacifiche. Mirabile lavoro della Civiltà ! L’Huberti ci rassegna nel primo Capitolo $ 6: Le associazioni pacifi- che legate col giuramento « Beschwovene Friedensbiindnisse,» nel $ 7 Le generali fratellanze pacifiche « Allgemeine Friedensverbriinderungen », nel $ 8 Le fratellanze di armi in sostegno alla pace « Waffenbriderschaft zum Schutz des Friedens» e nel $ 12 del capitolo secondo il nostro scrittore si estende a farci scorgere l’influenza della pace di Dio allo sviluppo delle libertà pubbliche «Einfluss des Gottosfriedens auf die Entwicklung der biirgerlichen Freiheit ». i Nella pace è il largo sviluppo dei dritti dell’ uomo, nella guerra i diritti sono, anco inevitabilmente, violati; e che sono le pubbliche libertà se gli umani diritti siano impediti o moncati ? Un terzo strumento che adopera la Civiltà, attraverso i secoli, per la consecuzione della pace è la dignità regale. Il Cristianesimo aveva depositato nel mondo pagano il concetto : la dignità regale esistere pel bene dei sudditi, e tal principio non man- cava di svilupparsi in ordine alla pace. IN OCCASIONE DI UNA RECENTE OPERA DI UN GIURISTA TEDESCO 9 L’ Huberti ci arreca bei documenti al proposito. Precisamente nel capitolo I $ 5 ha un titolo: Le intercessioni pacifiche per mezzo del re « Friedensvermittlungen durch den Kénig ». Roberto dei Capeti di accordo coll’imperatore Errico II avea di molto adoperato la sua autorità a consolidar la pace, anzi concepi un disegno di pace generale per l’intera Cristianità, e ce l’espone il nostro Dot- tore, ove parla di un Zusammenkunst Roberts und Heirichs II an der Meuse 1023. La intera seconda parte (Zweiter Abschnitt) si occupa, nell’ opera che esaminiamo, delle leggi di pace emesse dai sovrani francesi « Die Friedensgesetze der franzòsischen Kébnige», ci rassegna gli sforzi di Luigi VI il grosso e di Luigi VII il giovane, le assicurazioni di pace per mezzo del re Filippo Augusto, le ordinanze di pace di s. Luigi IX e di Filippo III l’ Ardito. Poscia evvi un quadro dei tentativi di proibi- zioni di guerra complete e secondo i tempi « Versuche gànzlicher und Zeitweiser Fehdeverbote », e ciò per autorità di Filippo IV il dello e di Filippo V il lungo. Un fatto guerresco colossale anzi molti fatti guerreschi che nella storia del Medio-Evo vanno intesi col nome di Crociate occuparono per due secoli principi, popoli e pontefici; e dov’è andato il lavoro della Civiltà in favore della pace? Signori, la pace non è un bene assoluto, e per quanto vorremmo il suo dominio per il vantaggio dell’ umanità, cionullaostante posson presentarsi delle contingenze così gravi, che non potranno eliminarsi con altro mezzo che colla guerra; e nessuno frai più ardenti amatori della pace negherà la necessità della guerra difensiva. Riguardo alle Crociate niun uomo di senno vorrà disdire le parole del Nestore fra gli storici italiani C. Cantù : «Se un eremita non avesse alzato nè i papi raccolto quel grido, la civiltà iniziata in Europa, rozza ancora, ma pregna di tante grandezze e virtù, sarebbe soccombuta alla lisciata degli Arabi che portava in grembo il tarlo mortale; la religione dell’amore e della libertà avrebbe dovuto cedere le nostre terre ad una di sangue e di schiavitù; e sulle belle contrade d’Italia e della Francia regnerebbero la brutale tirannide domestica e politica, l’orgogliosa im- moralità, la fatale indifferenza e la sistematica ignoranza» (1). Purtuttavolta . attraverso allo spirito bellicoso che invadeva gli uo- mini dell’undecimo e del duodecimo secolo, la pace di Dio e la pace territoriale il Gottesfriede e il Landfriede non desistettero d’influire lar- (1) Storia Universale tom. VI, lib. XII, C. XVIII in fine. Ediz. Torino, 1887. 10 IL LAVORO DELLA CIVILTÀ PER LA PACE gamente. Il credereste ? A Clermont l’anno 1095 fu decisa la prima spe- dizione delle Crociate; un Concilio risultante di 225 vescovi, 90 e più abati, di signori, di principi, in presenza di un popolo intero, mentre esortava ad impugnare le armi contro i Musulmani, provvedeva con- temporaneamente alla pace, cioè alla Tregua di Dio e all’ organizza- zione delle fratellanze pacifiche nei vari paesi. Il nostro Autore raccoglie con accuratezza dai molti storici i brani sparsi dei canoni del Concilio di Clermont nel $ 13, che s’intitola Ge- nerali Concili di pace e decreti pontificii di pace « Allgemeine Friedenskon- zilien und pàpstliche Friedensdekrete >. Le guerre necessarie non escludevano il lavoro della Civiltà per la pace, anzi le guerre delle Crociate s’intraprendevano per conseguire alla perfine la pace. Il Diritto pubblico dagli elementi, che abbiamo svolti, apparisce costituentesi maisempre in favore della pace : si organizzano i Comuni sotto l’influenza del concetto della pace. L’intero paragrafo 12 del ca- pitolo secondo è una prova diretta dell’affermazione del Diritto pub- blico all’ombra benefica della pace ; il titolo n° è La pace di Dio negli Stati « Der Gottesfriede in den Stadtrechten >. Era un dettato del Diritto pubblico medievale la condanna degli ere- tici da parte dell’autorità civile: eran dessi reputati nemici dell’ordine pubblico, e l’imperatore medesimo Federico II condannò alle fiamme i Paterini; ciononostante in mezzo alla persecuzione degli eretici si vuole benanco la pace. Il nostro Autore ha un paragrafo ben lungo, è il 16 del secondo ca- pitolo, tal paragrafo egli titola di questo modo: Amalgama del movimento pacifico colla persecuzione degli eretici « Verquickung der Friedensbewe- gung mit des Ketzerverfolgung >. È mirabilissima, nei multiplici documenti ch’egli adduce, questa direi compresenza di due concetti la guerra e la pace. Si reputava neces- saria la guerra, ma contemporaneamente si desiderava, si prometteva la pace, che vigesse ove non c’era guerra, o che presto si sostituisse alla guerra. i Il Diritto medesimo internazionale, come poteva esplicarsi in quei tempi, era pure organo della Civiltà , in favore della pace. Ricordate i Concilii generali che la impongono, ricordate il congresso fra Roberto re di Francia e l’imperatore di Germania Errico II. Signori Accademici, io mi affretto a conchiudere. Nei giorni nostri si parla molto di pace, e si detesta la guerra. Il secolo nostro ha po- tuto vedere evitati conflitti sanguinosissimi nella quistione dell’Alabama IN OCCASIONE DI UNA RECENTE OPERA DI UN GIURISTA TEDESCO 11 tra gli Stati Uniti e l'Inghilterra, in quella delle isole Caroline tra la Germania e la Spagna; ‘oggimai l’arbitrato internazionale è un concetto serio, che si studia e si vagheggia; gli Stati Uniti ne han fatto obbietto di un comunicato diplomatico ; la pace rappresentava il testè defunto imperatore di Russia, e la pace pur sostiene Niccolò II. Se non che questo gran concetto, che apre larghissima la via alle industrie, ai commerci, allo sviluppo morale ed intellettuale dei popoli, all’ estensione e al predominio del diritto, in cui è il vero progresso dell’umanità, questo gran concetto, io dico, è vieppiù facile sia accet- tato da tutti gli uomini di mente, allorchè si provi, colla storia alla mano, che desso sia stato prediletto, attraverso i secoli, dagli uomini che costituiscono il clero, il popolo, i re, allorchè si provi che desso sì sia trasfuso nel Diritto pubblico, e che sia rimasto in tutte le epo- che imponente in mezzo a fatti bellicosi ed a pratiche di rigoroso codice criminale. E questo contributo allo scopo di far sovraneggiare la pace debbon portarlo i Corpi scientifici, i quali non esistono per lusso, ma per in- fluire, in proporzione alla loro ragion di essere, sulla civile società. L’Huberti Dottore dell’Università di Wirzburgo nella sua opera sto- rica ha ben capita la missione dello storico ai tempi nostri: non le ripetizioni di cose le mille volte scritte, non le indagini minuziose giovan d’assai alla civil compagnia, giovano moltissimo queste pubblicazioni, fondate sovra fatti irrefragabili, le quali fan rilevare nel passato un gran concetto, che vive ed abbisogna di essere nutrito, confortato , diffuso, per dominare nel mondo a benefizio di tutti gli uomini. L'opera dell’ Huberti è sinora un volume e ben ponderoso, ma a quest’uno debbon seguire degli altri, ce li ha promessi, gli auguriamo di cuore da questa regione d’ Italia lena e perseveranza a compire i suoi Studien zur Rechtsgeschichte der Gottesfrieden und Landfrieden, egli ci appresterà sempre più copiosi elementi per ammirare, attraverso tutti i secoli dell’éra volgare, il gran lavoro della Civiltà in favore della pace. i) hi + ò Ù ) d . " x ì t ; p LIT - (POT h \ t a Ù < i Sa 1 i Ù È n C ù îi x a . o c x % Ù lì d P Ti x - W Ù î ì À 3 PioLo UAGGIO E PIETRO GORSETTO (0) L'ACCADEMIA DEGLI ACCESI E DE' RIACCESI DI PALERMO INNEI SECOLI XVI E XVII =—___& Lettura fatta il 16 Giugno 1895 Dal Presidente Vincenzo Pi Giovanni ® O ESLPALI D721 NYO LE DST-__T--_ DT —___—"_°_' °° °°° <°£©98@FTY—<><--==<>" » . Entra pertanto a trattare de’ doveri del pubblico Magistrato rispetto alla educazione dei soggetti; e fa questa bella considerazione, in pro- posito, che le leggi senza i buoni Magistrati non riescono a nulla, cioè, che «i Magistrati non possano essere ottimi, se non hanno huomini perfetti, nè costoro giammai saranno tali che i fanciulli e giovani tali non siano stati : perchè la prima cura che deve aver colui, il quale tiene carico di Magistrato, deve essere intorno al governo e disposi- tione de’ giovani, sapendo che non può l uman Genere senza ottimi governatori e vita honesta menare e felicemente essere governato ». Continua il Caggio in siffatte morali e politiche considerazioni, e a mano a mano scendendo al suo argomento e allo scopo della sua Lettera, sog- giunge : « Dee dunque esser tutto lo studio di colui che governa, quasi intorno alla semenza del Cittadinesco campo.... Onde havendo V. S. quella verga e quella autorità, forse non come gli altri, di poter pro- cedere ad un’ottima istituzione di vita ne’ nostri cittadini, non ha da lasciare di procurarle. E quel più efficace mezzo potrà Ella trovare che quello delle virtù? Non sappiamo noi che elle han tanta forza in se medesime, che sono amate dai nemici ne’ nemici? E le virtù tutte dove si troveranno già mai se non nell’ Accademie illustri e vaghe per tante varietà di scienze? ». Si ferma il Caggio sopra questo punto, dichiarando come le Accademie PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO 9 possano essere scuole di virtù morali e civili ai giovani per lo mezzo della coltura letteraria e scientifica; accenna al Conte di Vicari, uomo dotto, e primo Magistrato della Città, come riuscire in questo nobilis- simo fine; ricorda antichi esempi da Socrate a Ferdinando re, come « di tanto honore, di tanta grandezza, e di cotanto fasto, han giudicato questi si gloriosi Principi essere il metter su, e l’ inalzare le congre- gationi e le ragunanze degli huomini virtuosi e letterati»; ed esorta il Del Bosco, ad abbracciare e seguire, « per cagion della virtù » l’opera di tante uomini «sapientissimi», «massimamente ajutata dal benigno fa- vore che sa che gliene darà Giovan di Vega, eccellentissimo difendi- tore, dice, della nostra Solitaria Compagnia, il quale cotanto si diletta e tanto piacer ne prende che par che altrove non trovi più dolce ali- mento per satiare quell’anima sua nobilissima, che ne’ discorsi nostri Accademici ». La conchiusione della Lettera è poi piena di tanto amor patrio, e di tanta nobiltà e virtù di animo, che io non posso trattenermi dal non riferirvelo testualmente. « Che se Ella :dispreggia quello e’ han fatto e e’ hanno abbracciato con si sviscerato amore cotanti Principi, oltre di mostrarsi poco amo- revole alle virtù (proprietà nemica alla natura di Lei), ne seguiterà quel dispregio alla nostra patria, di cui tanto amaramente io mi do- leva nel principio di questa Lettera, e mi dorrò sempre mai con calde lagrime, lamentandomi di Lei, fintantoche non vegga il desiderato ri- paro alla comune patria nostra. Perciocchè io veggo che mentre si sta in questo bando della virtù, sono tirati gli huomini a mille opere.in- degne, a mille disoneste lascivie, e si lasciano tuttavia trasportare ai loro sfrenati desij.... « Chiamisi adunque V. S. cortesemente a se gli huomini che giudi- cherà atti alle virtù, ed abbraccigli nella maniera che l’ho detto, e che Ella sa fare, confortigli, sollevigli, dia lor animo, sveglili, accendagli, ed infiammigli tutti, à ripigliar quell’opera, che contra ogni dover con tanta negligenza han già lasciato via cadere. Dia lor modo di potersi ragunar almeno una volta la settimana, che non mancheranno a V. S. stanze, o sue, 0 de’ medesimi accademici, che ven’ ha di molti nobi- lissimi ed agiati di ogni comodo luogho. E mutisi alcuna stanza dedi- cata al gioco delle vituperevoli carte, in un albergo ricevitore delle vaghe Muse, e delle tante desiderate virtù. E se ben stanza non ci fosse, che così libera senza altrui travagliare potesse a ciò servire, tro- vine una V. S. nella Casa comune della Città, che ve ne son di molte che quivi, come io ho sempre mai proposto, per essere l’opera nostra 2 10 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO a comune honore della Città, potrassi più onestamente e più libera- mente, esercitare, che in qualunque altra parte di chichesia. Perchè in questo modo portandosi V. S., io son certo che non solamente le si dovran gli honori dell’Istoria, e le statue che ho detto, ma una co- rona eterna d’ altra maniera, per haver liberata la patria sua da morte, e consacratala all’immortalità gloriosa, che non si dava di una fronda di quercia a colui che havesse liberato da morte solo un citta- dino. Perciocchè giudicheranno tutti non essere se non gran fatto sol- levar gl’ ingegni, ornar le virtù, ed invitar i giovani suoi cittadini e fratelli ad ornarsi gli animi di quegli habiti illustri che terranno sempre mai felicissima questa città dove noi nascemmo ». Così pensava e scriveva Paolo Caggio, con sapienza civile quanto quella de’ suoi più grandi contemporanei scrittori di cose politiche e morali, degno del rispetto che ebbe in Venezia e come letterato e come uomo sapientissimo nelle civili discipline. Dopo pochi anni la coltura letteraria e civile della città si rinnovava accendendosi di un grande fer- vorenell’Accademia degli Accesi, accolta dapprima dal marchese di Pescara nel Palazzo Reale; poi col nome dei /accesî rinnovata solennemente nel 1622 in questa grande Sala Senatoria, dove tenne la prima solenne seduta, giusta il voto dell’antico Segretario del Comune; finché, decli- nando dopo la morte del Vicerè Filiberto di Savoja, e dopo l’allonta- namento , il ritiro e la morte del Corsetto, richiamata a nuova vita nel 1718 sotto l’altro nome di Accademia del Buon Gusto, le fu decre- tata finalmente sede permanente qui in questa principale Sala del Pa- lazzo Senatorio, dove dal 1791 ad oggi si è sempre radunata sotto le ali dell’aquila antica della Città. E gl’intendimenti civili del Caggio fu- rono già presenti agli Accademici Accesì, quando scrissero ne] loro Statuto o ne’ loro Capitoli non doversi accettare nel corpo dell’Acca- demia nè i macchiati d’infamia, nè «quelli che non saranno di ottima vita»; così come i Riaccesi avvisavano « nel ripigliarsi la nostra Ac- cademia , siccome si dice nel proemio de’ loro Capitoli, di voler prose- guire essi un’impresa così lodevole, (quale quella assunta dagli Accest) e di gran pregio alla Patria nostra, la quale si come negli antichi tempi non traviò mai dal diritto sentiero della virtù, così al presente si mo- stra sempre altissima nelle buone e virtuose azioni ». E dava grande fiducia della riuscita di quella ristorazione Accademica, aperta nel 1622 «in Palazzo », l'eccellente e onorando personaggio che ne ebbe il go- verno, il Regente Don Pietro Corsetto Presidente del Patrimonio, no- minato appunto Principe dell’ Accademia delli Riaccesi. Di Pietro Corsetto scrisse il Mongitore che tra le gravissime cure PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO IL del foro ricreò l’animo col culto delle lettere: «ideoque Panormitanam Accensorumn Academiam jam extintam anno 1622 instaurare summo- pere studuit, cui /eaccersorum nomen imposuit. In ea Princeps ele- ctus, seepius Musis indulgens, eximia ingenii monumenta cum lande protulit ». Uomo di sane dottrine e di severi costumi, volle addirsi adulto al sacerdozio, e nel 1628, fu nominato Vescovo di Cefalù, alla quale dignità rinunziava nel 1643, nel quale anno indi moriva in Palermo molto avanzato negli anni, e veniva sepolto in Santa Cita, fra le solenni onoranze e le lodi che ne celebrò l'Accademia degli Accesi, con versi e con Orazione funebre latina di Vincenzo Tortoreto (1). Una bella Iscrizione di elogio ne dettò Antonio Collurafi : 1° epitaffio pel luogo dove fu sepolto l'illustre uomo, fu dettato del figlio Ottavio nel 1654 (2), e quel luogo, che fu la Cappella di Sant'Anna, fu decorato e onorato di una seconda Iscrizione dello stesso Conte di Villalta, Ottavio Corsetto. Nel 1646, un Elogio in latino ne scrisse pure D. Carlo Ventimiglia, oltre le Memorie intorno a D. Pietro Corsetto , le quali si conservano manoscritte nella Biblioteca Comunale ai segni Qq. E. 16: e sopra tutti volle lasciare ai.posteri una bella Notizia, nel suo Teatro degli Uomini IMustri di Palermo, conservato nella sudetta Biblioteca Comunale nel volume manoscritto Qq. D. 19, il dotto Vincenzo Auria. Il quale pur nella sua Zistoria cronologica delli Signori Vicerè di Sicilia, etc. (1697) notando che nel 1642 fu il Corsetto, allora Vescovo di Cefalù, nomi- nato « per cedola di Sua Maestà » Governatore e Capitan Generale del Regno, insieme a Don Raimondo di Cordova, dice della famiglia Cor- setto venuta in Palermo da Noto, degli alti uffici pubblici e di Governo, e de’ provvedimenti presi dal Corsetto per fornire il Regno di vetto- vaglie, e tenerlo sicuro, e difeso dalle navi francesi « che danneggia- vano i mari siciliani » (3). Nel tempo che il Corsetto non fu più a reggere l'Accademia, perchè Vescovo di Cefalù, pare che la governò il figlio del Duca di Alcalà. Viceré di Sicilia, Don Ferdinando Enriquez (1) V. MoxcIToRE, Biblioteca Sicula, t. II, p. 135 e segg. ov’'è anche riportato l’elenco delle opere pubblicate dal Corsetto. (2) È riferito dall’ AuRrIA nel suo Elogio di D. Pietro Corsetto, nel ms. Qq. D. 19 della Comunale di Palermo: Petrus Corsettus Episcopus Cephalutanus virus non sibi mortuo Quos circumspixis tumulos eccitavit. Humili ipse loco depositus, magnitudinem suam Pedibus conterî maluît, quam oculis fascinari. Octavius filius magnificentius Pos. ann. 1654. (3) V. AURIA, Hist. cit. p. 103-106. Pal. 1697. ol PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO de Ribera, Marchese di Tarifa; notando lo stesso Auria, che il Cor- setto scrisse una Orazione in morte del marchese Don Ferdinando, «la quale Orazione si recitò nell'Accademia dei Riaccesi di Palermo da un altro Accademico, e fu fatta perchè il sudetto signor Marchese fu Prin- cipe di essa Accademia ». E della riverenza degli Accademici verso il loro Princeps, o Presi- dente, abbiamo testimonianza in alcuni Sonetti di taluni Accademici Riaccesi, conservati nel cod. ms. Qq. C. 18 del Biblioteca Comunale, con questo titolo : « All’Illmo Sig. Regente D. Pietro Corsetto presi- dente del Patrimonio e Principe dell’ Accademia delli Riaccesi di Pa- lermo ». Nel quale vol. ms. è pur notato che il Corsetto fu Principe delle due Accademie, degli Animosi e de’ Reaccesi, « creato unitamente », cioè quando gli Animosi si confusero ne’ Reaccesi. Al che mi pare si riferiscono queste due note del Paruta nel ms. segnato Qgq. E. 29, cioè « f. 114, 1621, Accademia rinnovata sotto nome di Riaccesi. Oratione di D. Carlo Ventimiglia e di D. Berlinghiero Ventimiglia. « Ind. 1627-28, f. 115. « Oratione di D. Berlinghiero Ventimiglia alla Corte del Pretore (cioè nel Palazzo Pretorio). « Accademia ristorata sotto nome di Riaccesi, Principe D. Pietro Corsetto. » Questa seconda data del 1627 è certamente la data della unione degli Animosi ai Riaccesi in unico Corpo Accademico, quando fu « creato unitamente » Principe il Corsetto. E a questo avvenimento io credo doversi riferire il Sonetto di Giuseppe La Farina palermitano, nel quale conchiude : Eccita pure a generosi affetti Gli animi pigri, e de’ pregiati allori Fa che gloria verace ognuno alletti. Sì poscia avrai gli a te dovuti onori, Si accenderan degli Anîmosi i petti, S'animeran de i Riaccesi i cori (1). E è ancor bello questo Madrigale d’ Incerto « al sudetto Principe », cioè al Corsetto : Non già ferro, od acciar, ma lucid’oro, Di alto divin tesoro Tragge da nobil Pietra a mille a mille Ove vi raccendete alme faville; O spirti del felice Aonio Coro, Raccendetevi pur, e nove stelle Siano del nostro ciel luci sì belle. (f. 265) (1) V. ms. 2 Qq. C. 18 nella Bibliot. Comunale di Palermo. PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO 15 Né meno bello è il Madrigale del Sig. Francesco Platamone, paler- mitano, « all'Illmo Sig. Don Berlinghiero XX miglia per la oratione ch’ egli eloquentemente compose e recitò dinanzi all’ Illmo et Ecemo Sig. Duca di Alburquech nel nuovo cominciamento dell’Accademia dei Raccesi di Palermo nella Sala del Palazzo di detta Città » : Candido e dolce cigno A rauco e scuro augel già non conviene Lodar, che tanta forza egli non tiene. Il dirò pur (se pur dal tuo benigno Voler mi fia concesso) = Che non sol di Sebeto, e di Permesso I Cigni e le Sirene, Ma bench’avvolto di terreno velo, Avanzi d’harmonia quelli del Cielo. Altro Madrigale fu scritto da /rcerto « Al sudetto per l’ Accademia », accennando alle grandi speranze della rinnovata istituzione letteraria : Taccia la fama antica, Né d’Hercole più dica. Tu ben co’ detti tuoi (O Berlinghier) sul puoi Catene d’oro far, e legar l’alme Scorgendole a virtù, di tanta gloria, Tue sou tutte le palme. Nè ciò favola sia; sia vera historia, Cara immortal memoria (1). Appartenne all'Accademia de’ Riaccesi anche un Antonio Pico, « di- scendente, dice il Di Giovanni, dai Pichi della Mirandola », e nel vol. ms. cit. si legge del Pico questo Sonetto. All’Entrare nell’ Accademia degli Riaccesi Sonetto d'Antonio Pico, Palermitano Ecco ch'io pur sembrai pianta infeconda Poc'anzi in vil terren nata e nutrita, Hora tra voi somiglia arbor fiorita Del bell’Oreto in su la destra sponda Altro cielo, altro sole, altr'aura, altr'onda Fa che verdeggi in vista alma e gradita, Dono però di voi, dond’ella ha vita, Illustre schiera, onde di gratie abonda. E spera ancor per voi fra le più elette Forme e più belle di fior, frondi e frutti Darvi carco l’Autunno; onde di pregi Sì famosa verrà poi fra noi tutti, E sotto le vostrombre alme e dilette, Sarà ch’altri d’honor la privilegi. (1), VW. ms. cit. 2 Qqg. Ci 18. 14 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO L’autore del Sonetto doveva esser giovane, e pare che allora entrava nella vita letteraria. Io feci notare altra volta che nella Orazione di Berlinghiero Venti- miglia recitata innanzi al Vicerè Filiberto di Savoja e al Cardinale Doria nel Real Palazzo quando solennemente vi si radunò l'Accademia de’ Riaccesi, fu detto che quell’Accademia protetta e favorita dal Vicerè Emmanuele Filiberto di Savoja era stata « adombrata dal Sig. Conte di Castro ». E veramente si è ritenuto che primo fondatore dell’Accademia de’ Riaccesi, o meglio rinnovatore dell’ antica Accademia degli Acces?, fosse stato il Vicerè Filiberto : ma alle parole del Ventimiglia pel Conte di Castro, io posso aggiungere oggi i documenti che provano l’ Acca- demia de’ Riaccesi essere stata ordinata sotto il Vicerè di Castro, che precesse a Filiberto di Savoja. Nel vol ms. 2 Qg. C. 21 della Biblio- teca Comunale si trovano questi componimenti poetici, sul proposito, cioè : di Onofrio Paruta (ms. 2 Qq. ©. 21, Bibl. Comunale). A] Sig. Conte di Castro per l’ Accademia. Da qual parte del Ciel, da quale sfera Mova la voce a formar loda eguale Al merto di colui grande, immortale, Che fa la Patria mia bella ed altera? Certo non vide mai di Gloria vera Un simil raggio ancor vecchio mortale: Per cui verso le stelle hor batte l’ale Amica di virtù felice schiera: E ll bel nome di lui dolce cantando, Eterna il suo : tal è il vigor che prende Opra gentil da fondator famoso. Io si novo miracolo mirando, Di tante meraviglie alte e stupende Vorrei pur dir, ma ’incomineiar non oso ! Al Conte di Castro per l’Accademia E questo hor'anco palme a gli honor vostri Accresce, o gran Francesco, che cotanti S’odan per lodar Voi soavi canti, E vaghi ornati stili e puri inchiostri. Roma ne’ suoi Teatri e ne’ suoi Rostri, Versi e prose non ebbe unqua altrettanti, Salvo di que’, che a Mecenate avanti In pregio fur più che le perle e gli ostri. Degno effetto di rara alta virtute, Ch'a maraviglia e amor la gente induce, Si che tener non può le lingue mute. Indi Gloria fiammeggia, e questa luce Ch'a ben far desta, e noi scorge a salute Sotto sì chiaro e fortunato Duce. PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO IO Q Si legge sotto : Nilippo Paruta detto il grato. E fra i Sonetti di Nofrio Paruta « al Sig. Cardinale Doria Arcivescovo di Palermo » si legge « All’istesso », e in margine « per l’Accademia »: Quel vivo e divin raggio, che la mente Vi scorge alla grandezza, onde ha sostegno E salute ed aita non che il Regno, Ma del Re la divota amica gente. Ed onde viene a voi l'ampio e possente Ch'è de l’human valore ultimo segno; E del favor l’altezza e del’ingegno Ch’usate a pro di noi benignamente, Quell’è, c'hoggi a lodarvi tanti Spirti O magnanimo Eroe, sveglia e raccende, E imparadisa l'Accademia nostra. Hor s'ella, come può gratie vi rende, Mentre lieta vi dona hor lauri, hor mirti, Gradite in Lei, Signor, la gloria vostra. Il Cardinal Doria assistette all’apertura dell’ Accademia, e alla tor- nata tenuta nel Palazzo Reale. d In un altro vol. ms. della stessa Biblioteca, segnato Qq. O. 31, tro- viamo, di carattere dello stesso autore: All’Eccellmo D. Francesco di Castro Conte di Castro Vicerè di Sicilia per l'Accademia di Palermo, l’Abbate D. Flam. Leofanti. Castro sublime in cui securo e grande Rifugio han le virtù, che sparse in prima Meste vagar per ogni estranio clima, Ovunque Febbo i suoi bei lumi spande, Fu del sommo Fattor l’opre ammirande Quanto il corso mortal è che l’esprime. rassembri con dotta . . .. . sublime Che in ogni età sian chiare e venerande Con vivi rai d’ardente e chiara luce Di Giustizia e Pietade, il fosco velo Sgombrasti già del nostro oscuro stato : Ed hor quasi formando un novo cielo, D’alte menti il riempi; o fortunato, A cui di un sì bel Sol l’alba riluce! (75 24062))6 Si allude certamente al fatto che la precedente Accademia si era oscu- rata, mancando , e il Castro raccogliendo una nuova società di dotti, nuovo cielo d’alte menti, apriva con la nuova alba il corso a uno splen- dido Sole per gli avvenire. 16 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO E documento sopra tutti autorevolissimo è l’atto del Consiglio Civico del 1622 nel quale deliberava che « avendosi con l’autorità et favore detta Ecema del Sig. Conte di Castro, nostro Vicerè, fondata l’ Acca- demia delle belle lettere in questa Città », era conveniente che si fosse fabbricata a spese pubbliche una casa « per l’unione degli Accademici >, dando al Senato la potestà di spendere « promodo la somma di onze duicento cinquanta ». La Lettera di Paolo Caggio pertanto ispirò la nostra prima Accademia, raccogliendo sotto il novello nome di Accesi, i Solitari e gli Animosi; D. Pietro Corsetto dappoi, che diede e cimentò la impresa de’ Aiaccesi, fu l’ordinatore della seconda Accademia, sorta sotto gli auspicii e il fa- vore del Conte di Castro e di Emanuele Filiberto di Savoja; sì che nella storia dalla nostra Accademia ne’ due secoli XVI e XVII saranno sem- pre riveriti questi nobilissimi nomi; siccome sarà documento che forse nessun'altra Accademia Italiana del secolo XVI potrà vantare per la sua sapienza e per gli altissimi intendimenti co’ quali considera l’ istitu- zione de’ Corpi Accademici, questa Lettera di Paolo Caggio scritta da Cal- tabellotta il 13 settembre 1554 « AIl’Illmo Sig. Vincenzo del Bosco pa- lermitano il resoluto Solitario, Conte di Vicari, Luogotenente, e del Con- siglio di S. Maestà in questo Regno di Sicilia, Pretore della felice Città di Palermo » (1):la quale Lettera farà oramai parte degli A#fì di questa R. Accademia. V. Di Giovanni. (1) La Biblioteca Nazionale di Palermo ne possiede ora altro esemplare nel codice recentemente acquistato, di mano del sec. XVI, segn. XII, A, 3, e così ho potuto per questa stampa consultarlo. Il codice è proveniente dalla Spagna; è rilegato in velluto verde, ora un po’ sciupato, e ha i fogli dorati, appartenne a Casa principesca. PTT °° —©T—°<7 <{_---<-<---<— © <°©}° -©— <=<-®-«<<<“«€<<<<<““‘“<«<“‘“%““ All'Illmo Sig. Vincenzo del Bosco palermitano il Resoluto Solitario, Conte di Vicari, Luogotenente, e del Consiglio di Sua Maestà in questo Regno di Sicilia, Pretore della felice Città di Palermo, Paolo Caggio, Palermitano, detto il Modesto Solitario (1). Che la prima cura di colui che tien carico di Magistrato dee essere intorno al governo e dispositione dei Giovani, e si conforta il Conte a ripigliare l'Accademia dei Solitari di Palermo. Assai più pertempo mi era venuto nell’ animo di proporre a V. S. l’ opera, di cui intendo ragionarle alquanto in questa Lettera. Sono stato poi rimesso di potere ciò eseguire per essere ancor io impiegato nelle faccende e di Capitani e di soldati per conto della guerra, ed in altre occorrenze nello stato del Duca mio Signore, benchè a pari di lei non meno havrebbe stato a grado abbracciar quanto io son per dirle, che le siano l’ opere, le quali sogliono partorire i trionfi, e le glorie dell’armi, essendo V. S. non meno valorosa in quelle, che avve- duta in ciò, che son per iscriverle. Hor poichè e la buona fortuna, e la presente stagione, e l’honorato carigo che tiene V. S. mi porgono tuttavia occasione che io con grandissimo profitto mi possa con esso Lei dolere della ingiuria fatta da noi medesimi alla nostra patria, perchè non paja non ingrato, non vo perderla. Veramente, Signor mio, grandissimo dolore mi porge e con assai più acuta punta che non si può mostrare con parole, mi sento io trafitto fin nell'anima quando io considero la bellissima Città nostra oltre di essere stata fregiata delle bellezze della Natura, ornata dalla mano dell’arte, fornita della gratia de’ suoi Principi, haver asceso all’ultima perfetione et al colmo delle (1) Dal vol. ms. Qg. C. 15 f. 211 della Bibl. Com. di Palermo col titolo « Fascio delle Cose di Palermo, Raccolti da alcuni Autori con altri Opuscoli del Dottor Don Vinceuzo Auria, Palermitano. Tomo secondo. Ex dono ejusdem D. Vincentii, nune D. Ant. Mon- gitore ». 5) 18 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO virtù per mezzo d’una ragunanza di tanti spiriti eletti, esser poi per la malignità di alcuni pochi loschi ingegni venuta a mancare l’opera che tanto più bella e risplendente la ci mostra, quanto son vaghe più le cose dell’anima che non sono gli effetti del corpo : onde è già, se- condo che io veggo, compiuto il desiderio degli altri ambitiosi, sonosi satiati gl’invidi, e tuttavia se ne sodisfanno coloro che tutto disputa- vano il veleno contro quella gloria, la quale n’ andavano preparando la bontà delle pure menti di alcuni letterati nostri, e perchè io lo dica in una parola : È spenta l'Accademia nostra, éssi estinto il lume degli occhi; è secco il verde delle nostre speranze; poco durarono le stanze deile Muse; 1’ invidia, la pigritia, 1’ ignoranza, la dapocaggine 1’ han mandate di nuovo in esilio, le son cacciate via che tanto soavi e dolci haveano tornato all’antiche lor case. Il vecchio Oreto nostro non ode più que’ suoi cigni, e di cui tanto parea gloriarsi; le fiorite sue sponde non sono culte , i fiori si riseccano in lor medesimi, 1’ acque torbide non danno più quel dolce mormorio tanto grato all’ uccelletti, ed ai purgati orecchi de’ nostri Solitard. Ma poichè non è si fiero caso, né sì grave errore in questo mondo a cui la mano dell’huomo e la bontà dell'animo non possono reparare; parmi che in cotanta afflietione in sifatto disordine di cose, sola V.S. porrà esser colei che saprà dar rimedio; in Lei sola si fondano le spe- ranze, Lei tengono per colonna, Lei veggono per refugio e per sostegno e gli spiriti belli e le Muse e il grande Oreto e la Città felicissima. Essendo adunque V. S. quella ferma speranza, havendo Ella quel- l’honorato carico di Pretura, essendo e giuditiosa e savia, sapendo le qualità et honori de’ nostri, non haverà à mancare alle pubbliche voci, che ciò gridano, non lascierà perire le virtuti, non permetterà che le nostre sorelle siano aspramente bandite, nè vorrà che la gloria di quella Città di cui tien Ella il governo della voluntà dei nostri NRE cada tuttavia per non potersi mai più levare in alto. Ristorerà adunque V. S. l'Accademia de’ Solitarii, risoluta à poter far ciò con quella agevolezza che le ministerà la grandezza del suo animo reale, e reporrà sù nella cima del suo monte la civetta che non meno si tenea felice di esser quivi celebrata che nelle scuole della dotta Athene. È comune opinione degli Accademici, che i Magistrati debbiano es- sere anteposti alle leggi; perciocchè queste senza quelli sono già una cosa senza utile veruno : i magistrati poi non possono essere ottimi se non hanno huomini perfetti, nè costoro già mai saranno tali, che i fanciulli e giovani tali non siano stati; perchè la prima cura che deve haver colui, il quale tiene carico di Magistrato deve essere intorno al PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO 15) governo e dispositione de’ Giovani; sapendo che non può l’human Ge- nere senza ottimi governatori e vita honesta menare, e felicemente es- sere governato : onde gravemente il gran Platone si duole di quella età, la quale giunge con la lascivia e libidinosi desiderii, la superbia e il comune dispregio; perciocchè essendo posta in gravissimo pericolo nei parenti, nè le leggi, nè’ Magistrati l’ avvertiscono, e tien per questo necessarissima la moral disciplina, non solamente in ogni età, ma per lo buon governo massimamente di quegli huomini, che hanno ad essere tanto ottimi cittadini, che ne risulti la felicità della patria. Siccome adunque niente potrà raccorne colui da’ suoi campi, che niente seminò; così colui che non ha piantato la virtù negli animi de’ suoi, niente potrà raccoglier di frutto nella felicità del suo magistrato. Dee dunque esser tutto lo studio di Colui che governa quagi intorno alla semenza del cit- tadinesco campo. Talchè se fia bisogno debbia haver ragione e dei gesti, e dei giochi, e fin delle parole degli homini (1). Che se non si tien cura degli andamenti di costoro, non altro s'ha da sperare per le leggi, e per gli statuti che si speri il medico, il quale tuttavia porga le medicine a colui che intemperato non serba modo alcuno di reggi- mento di vita. Il contrario di-che si vede nelle Repubbliche ben or- dinate; che sì come uno avvezzo alla virtù della temperanza non ha quasi mai bisogno di rimedio alcuno, essendo ben sano ; così in essa città ripiena di ottimi cittadini e temperati non fan di mestieri le leggi quasi medicine à gli effetti degli huomini. Onde havendo V. S. quella verga e quella autorità, forse non come gli altri, di poter procedere ad un’ottima istitutione di vita ne’ nostri cittadini, non ha da lasciare di procurarla. E qual più efficace mezzo potrà ella trovare che quello delle virtù? Non sappiamo noi che elle han tanta forza in se medesime che sono amate dai nemici e ne’ ne- mici? E le virtù tutte dove si troveranno già mai se non nell’ Acca- demie illustri, e vaghe per tante varietà di scienze ? Essendo adunque le virtù amabili da per sè, e splendidissime, agevol cosa sia tirar gli huomini ad amarle; e perchè elle son habiti ottimi ed eccellenti, ne seguita per forza che ottimi ed eccellenti saranno co- loro che ne saran vestiti. Et cosi ottimi ed eccellenti i nostri cittadini ogni volta che l’abbraccieranno con quella carità che cominciarono da prima, e ne resulterà per questo la perfetione in tutto il magistrato, in cui V. S. è la prima, anzi suprema voce. E sarà la Città nostra felice et eccellente, non tanto per cagione dei doni e delle grandezze (1) Corretta sul codice della Nazionale, segnato XII, A, 3. 20 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO della Natura e dell'Arte; ma ancora in virtù delle virtù medesime. E fia questo un modo usato dal grandissimo Socrate, il quale con simil mezo aitava sempre mai e spingea la gioventù, che dovea esser seme della futura Republica, ardendo nei fuochi della carità della patria. Questo, Sig. mio, è quel vero modo col quale si posson gli animi dei nostri Giovani tirare à quella perfettione di virtù, che noi ne’ nostri desideriamo; non già con dar loro leggi insopportabili e dure, perciocche non tutti siamo Licurghi o Soloni. A pochi è data autorità di far leggi; pochissimi sono che alle fatte leggi ubbidiscono. Che cosa adunque fa- rassì ? Ritrarremo forse gli huomini, con la violenza della forza ? Solo Hercole dicesi haver combattuto co’ mostri, agli altri malagevolissima e pericolosa è questa violenza. Forse che gli huomini scellerati e pie- ghevoli ài viti si potranno riggendere, castigare o ammonire ? Questo meno: perciocchè un animo torbido dalla varietà di tanti affetti spregia tal’hora le parole di chi l’ammonisce, e quel ch'è peggio, inerudelisce contro il medesimo. Una sola via resta alla salute et al riparo della gioventù. E questa è la dimestichezza che V. S. amorevolissima e pa- rimente cortese potrà usare con esso lei. E sicome suole con la schiera de’ molti Cavalieri usar tante specie di carezze, così giungendo il nu- mero dei letterati a costoro potrà lor far parte de’ familiari ragiona- menti, ricevendogli con lieta fronte et abbracciandogli eon quelle dolci accoglienze, che son proprie sue, e facendo lor parte dei bei discorsi di poesia e degli andamenti della guerra, in cui V. S. è cotanto prat- tica e giuditiosa , intratenendogli talvolta negli honorati banchetti, si come hora fa a molti gentil huomini come si facea nella Corte di Ce- sare, che già sa la V. S. non haver havuto miglior istromento in sostener l’Academia della Corte che quello dei Conviti : sicome tal hora si legge di Platone, e del chiarissimo Lorenzo dei Medici. Così perchè pari con pari leggiermente si confanno, e con la purità della vita e con la sem- plicità delle parole, e co’ giuochi, e con le facetie di vecchio di senno, tornerà V. S. giovane; affinchè tal hora con questa gioconda e fami- liare dimestichezza faccia tornare i nostri Giovani vecchi tutti, e ri- pieni di quel senno che si desidera nelle gloriose Republiche. La Gioventù pieghevole alle voluttà, con simili diletti soli è possibile intratenersi; fugge ogni altra rigidezza di comandamento; presa in questa maniera prima con la soavità e dolcezza, si può passare col tempo a qual- che honesta severità; ed in ultimo adescati gli huomini, e confermati negli andamenti delle virtù e belli costumi, si potrà procedere a quel rigido castigo che meriterebbe uno il quale disturbasse la pace e la tranquil- lità di sì bella ragunanza di persone elette. PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO 21 In questa maniera, con questa carità, con simili ragionamenti, e con tali prattiche il gran Socrate cacciò fuora dai luoghi dishonesti e vitiosi Fedone giovane, e lo fe’ divenir filosofo. Costrinse a bruciar la tra- gedia Platone divino inchinato molto alla poesia, e fecegli prendere studi assai più degni e pregiati. Senofonte similmente dalla intemperanza ri- dusse alla sobrietà; fece ricchi di poveri, Eschine ed Aristippo. Fedro di oratore converti in filosofo, ed Alcibiade ignorante rendè dottissimo. Carneade fece grave e vergognoso da un leggiero e sfacciato : Teage giusto e forte cittadino nella Republica, Eutidemo e Menone dagli in- ganni dei sofisti tradusse alla vera sapienza. Questi effetti sogliono partorire gli ardenti amori che si portano alla patria, i quali sono stati tal hora sì ardenti et accesi in alcuni huomini, che non per piantar le virtù, come io desidero che faccia V. S. nella nostra, ma per allargare solamente i termini della terra, si sono la- sciati crudelmente morire sotterrati nei sassi; sì come si legge dei Fi- leni da Cartagine, e del grande Aristotele, il quale giacendo nel letto in Atene non potè non essere sollecito della patria, la quale havendola Alessandro rovinata, ottenne per lettere del medesimo che fosse ristorata. Che se sono costoro lodati e degni del grido che lor si dà nel- l’ Istorie per haver atteso agli edificii dei sassi, quanto più grande honore si dovrà a V. S. pensando di ristorar la patria sua di tante e sì belle virtù, quante e quali si soglion trattare nell’ Accademia ? Io credo che non solo grido d’ Istoria si dovrà a V. S. ma à guisa di un Marco Portio Catone grato ai Romani per haver loro restituiti i co- stumi, sarà degno d’una medesima statua come questi. E se a Deme- trio Falereo per haversi esercitato nel governo della Republica degli Atheniesi solamente per dieci anni gli furono levate su trecentoses- santa statue; che crediamo che si dovrà al nome di V. S. se nel re- gimento di un anno solo, ella metterà cotali termini agli honori ed alle virtù della patria sua, che non potranno mai più cadere in tempo alcuno ? Dipoi parrà a V. S. che l’haver in pregio e l’haver in honore l’ essere amorevole ai letterati huomini, sia cosa di poca riputatione, come credono gli sciocchi Francesi ? Veggasi che il gran Carlo detto Magno per formar un studio in Parigi condusse i dottissimi huomini quasi da tutto il mondo : simile amore fu in Carlo Crasso (Grosso 2) il quale con una singolar benevolenza solea confortare gli huomini al- l’esercizio dello scrivere. Così Gismondo Imperadore, il quale non so- lamente favoria gli scrittori, ma dava loro le dignità grandi, mosso forse dal costume di quel Antonio Pio, il quale ai Rettorici e Filosofi non solamente dava salarii, ma grandissimi honori e carichi di provincie. 22 PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO Così Alessandro Severo, il quale non solamente amava ogni sorta di letterati, ma ancora gli Aruspici ed Architetti. Così Tolomeo Re d’Ales- sadria; così Dionisio Siracusano; il primo de’ quali presentava e doni e salarij a’ dotti homini che chiamava; e "1 secondo per haver predetto Elicone Ciziceno l’ecclisse del Sole gli diede un talento. Lisandro simil- mente in tanto amava i poeti, che per certi versetti diede ad Antilocho in merito una berretta piena d’ argento. Ferdinando Re sran somma ordinò che d’anno in anno si desse ai Rettorici, ai Medici, ai Filosofi, ai Teologi, i quali pubblicamente leggevano in Napoli. Giulio Cesare sì come leggiamo in Svetorio perchè i professori e di medicina e dell’arti liberali più volentieri habitassero in Roma, diede lor privilegi di cit- tadinanza. Vespasiano Imperadore favori gl’ingegni e l’arti e fu il primo che ai Retorici latini e Greci costituì salario di anno in anno. Gli hono- rati poeti ornò di molti doni, e riparò finalmente le librarie consumate dal fuoco. Tanto adunque e si grande è l’amore che deono e sogliono portare gli homini alle virtù , alle lettere, alle patrie loro! Di tanto honore, di tanta grandezza, e di cotanto fasto han giudicato questi sì gloriosi Principì essere lo metter su, e l’inalzare le congregationi e le ragunanze degli huomini virtuosi e letterati. Se piace dunque un’opera tale non senza voler di Dio ai Maggiori nostri, à gli Imperadori gentili e Christiani, à i Re, à i Principi, alle Città, alle Nattioni, è gli huomini sapientissimi, à vecchi, ai Giovani, et ad ogni età, essendo da per se amabilissima, come si è mostrato, per cagion delle virtù, deve V. S. colsuo reale animo ed abbracciarla e seguirla, ed inalzarla con quel modo, con quell’amore, e con quella carità che facilmente potrà, e nella maniera che han fatto cotanti Si- gnori. E so ben io che non le mancherà con tutta questa agevolezza una piacevole autorità: che so certo quanto ella vale e sia riverita ed amata da ogni persona nella Città nostra: che quando ciò non fosse, potrà Ella farlo con quel benigno favore che so che gliene darà Giovan di Vega, eccellentissimo difenditore della nostra Solitaria Compagnia, il quale cotanto si diletta e tanto piacer ne prende che par che altrove non trovi più dolce alimento per satiare quell’ anima sua nobilissima che ne’ Discorsi nostri Accademici. Dal luogo della quale autorità io presi ardire, come di cosa appartenente a V. S. e che non può per verun modo schifarla, di trattarle di questo bel ristoro della nostra Accademia. Che se ella dispreggia quello ec’ han fatto e e’ hanno ab- bracciato con sì sviscerato amore cotanti Principi, oltre di mostrarsi poco amorevole alle virtù (proprietà nemica alla natura di Lei), ne se- guiterà quel dispregio della nostra patria, di cui tanto amaramente io PAOLO CAGGIO E PIETRO CORSETTO 253 mi doleva nel principio di questa Lettera, e mi dorrò sempre mai con calde lagrime, lamentandomi di Lei, fin tanto che non venga il desi- derato riparo alla comune patria nostra. Perciocche io veggo che men- tre si sta in questo bando delle virtù, sono tirati gli huomini à mille opere indegne, a mille dishoneste lascivie; e si lasciano tutta via tra- sportare a’ loro sfrenati desij. Onde se hor si può con questo mezo co- tanto efficace, non ci si usa il proposto rimedio, niuna cosa sarà giamai che possa rimediare à gli errori, che di per dì nasceranno nelle menti de’ nostri Giovani. E sarà tutto attribuito alla poca carità, anzi all’im- prudenza di chi poteva ripararci, e non lo fece. Chiamisi adunque V. S. cortesemente à sè quegli huomini ehe giudicherà atti alle virtù, ed ab- bracigli nella maniera che l’ho detto, e che ella sa fare, confortigli, sollevigli, dia lor animo, sveglili, accendagli, ed infiammigli tutti à ri- pigliar quell’opera, che contra ogni dover con tanta negligenza han gia lasciato via cadere. Dia lor modo di potersi ragunar almeno una volta la settimana, che non mancheranno a V. S., stanze, o sue, 0 de’ medesimi Accademici, che ven’ha di molti nobilissimi, ed agiati di ogni commodo luogho. E mutisi alcuna stanza dedicata al gioco delle vituperevoli carte in un albergo ricevitore delle vaghe Muse, e delle tante desiderate virtù. E se ben stanza non vi fosse che così libera senza altrui travagliare potesse a ciò servire, trovine una V.S. nella Casa Commune della Città, che ve ne son di molte, che quivi, com’io ho sempre mai proposto, per essere l’opera nostra à comune honore della Città, potrassi più honestamente e più liberamente esercitare, che in qualunque altra parte di chi che sia. Perchè in questo modo por- tandosi V.S., io son certo che non solamente Le si dovran gli honori dell’ Istorie Ù e le statue che ho detto, ma una corona eterna d’ altra maniera per aver liberata la patria sua da morte, e consacratala all’immortalità gloriosa, che non si dava d’ una fronda di quercia a colui che havesse liberato da morte solo un cittadino. Perciocchè giu- dicheranno tutti non essere se non gran fatto sollevar gl’ingegni, ornar le virtù ed eccitari Giovani suoi cittadini e fratelli ad ornarsi gli animi di quegli habiti illustri che terranno sempre mai felicissima quella Città dove noi nascemmo : e bacio la mano di V. S. con ogni riverenza. Di Calatabellotta, il di 13 di Settembre 1554. Paolo Chagsgio. «Questa lettera la copiai da un altro esemplare prestatomi dal Signor Don Giov. Bat- tista Valleggio» (nota dell’Auria). RelS OE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE NEL R. OSSERVATORIO DI PALERMO (VALVERDE) NEGLI ANNI 1895-96 2 D RIASSUNTO DELLE OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE ESEGU BAROMETRO TERMOMETRO CENTIGRADO VENTO | c (©) e | (sì Î | . E E = TSE © & ci Anno e mesi _ E | E È = | UE è | &| 5495 z = 5 Sas Sa 5 SOI Sa RIE 2 | gl Ron 5 | | a à | a O di cr —_ ol r————_@t_6@Ì Pn Sr | I 1595 | | | | | | mm. mm. | mm, | (o) D) () | Em. | km. | | Gennaio . . ... 764,00) 20 |750,02/735,06| 4 | 243 16 | 11,07] 12| 2 SW | 142.| 50,0%] | | i Febbraio . . ...- 58,65 | 26 |48,91| 39101 7 | 26,7 T |12,16[—1,9| 19 | SSW | 103 | 415 | M6 NEZORERO SL 60,93 | 19 .| 52,70) 33.95| 12 ji 31,5,| 29 Cen 1,0 | 20 SSW 94 | 57.0 | | | Aprile! tt 60,32 | 10-11 | 54,23) 48,00| 1S 30,3 | 18 1758 | 5,c| 11 NW | 6) 35,0] Maggio. ..... 64,06 955,92] 42.60 1 31,3 | 19 | 1867 8 | 3 ENE 4,5T| 31,0) |0N | | | | Ginosa 61,61] 23 | 56,51) 50,81] 11 | 347) 19 |22,91| 10,8 16 E 4,6 | 26.5 | | | | Tiuglio- sa vr 59,25| 3° | 56,05) 50,20] 5 | 438] 5 |26,36| 13,9 1 RIDI I li SLLE Agosto. ...... 61,42 29-30 | 56,49) 50,30] 3 | 348! 5 lo574| 145| 55 E 46) 252 | Settembre . . .. | 65,15) 24 |59,12]52,90| 14 | 333| 14 | 2416] Ottobre - .. -.-. 61,34| 14 | 5446] 4730/2024] 346| 30 92:52] 86.) 19 | SW | 8:63 Novembre. . . . . 605,94] © | 59,11] 40 0| DA SSA 9A So SW 3,8 | 20,0 Dicembre. . . .. 63,75] 10 |53,62| 43,80] 14 | 247| 25 |1330| 11 10 SW | 10,1) 52,0 | GI | | E Medie. . | 154,76 | | | 18,75] 11 | | | Î | | | | | | | Ì mm. Massimo . . f (67,34 mm. Medio. ... > generale del barometro «è 754,76 Escursione barometrica annua = 33, 39 Minimo. . . | 133,99 Massima forza del vento — Km. 57,0 il 12 Marzo. VEL R. OSSERVATORIO DI PALERMO NELL'ANNO 1895 3 | ] | {i NUVOLE PIOGGIA | GIORNI CON x GRAN- | DINE GIORNI PIOVOSI | VENTO FORTE |"TUONI | NEVE Densità Massa in millimetri QUANTITÀ fee serxgpres gie) — | — |12:3,45,6,7,8,9,10,11,12,18,19,24,27,28,29,30, |192,72|4,5,6,7,8,9,10,13,15, |3,5,29,30 |2,3,45,29,| 1,3,5,28 | | 31 | 16,21,24,25,29,30 30,31 | id — | — |1,4,7,9,11,12,14,16,17,18,19,23,24,25,28 65,98 | 7,11,18,25 11 TSO ps — | — |45,6,12,13,14,15,16,26,27 68,62 |6,11,12,25,26,28 5,12 6 5,16 nel E | di i o 5| — | — |7,15,192021 34,75 | 2,3,14,18 = — | — w2:2| -- | — |46,7,9,16,25,26,27,98 97,74 | 16 (9,15,16,25,| — — | : | 26,27 id Ri 212 1,55 = = — - | | pos MES 1,055 = — - {o = | | 9,85 = 23 * =. 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OSSERVATORIO DI PALERMO NELL'ANNO 1896 5 | Il | î NUVOLE PIOGGIA | GIORNI CON | \(_ = 35 Pe | | | | | lo | | cd E | PE È to) is | (6 | {UE ° È E GIORNI PIOVOSI 5 Z| VENTOFORTE | TUONI | NEVE | 8 3 S = Quel < ME A Si pl e È GE 5 j | | | | ibi — — |1,5,6,8,9,10,11,12,13,16,17,23,25,26,29 118,60 2,6,7,9;10,11,16 16 7,8,10 — Î 4 | Mor — — ||5,16,20,21,22,24,25,26,27,28,29 40,85 | = 26 = = i ° — — ||6,10,11,19,20,25,29,30,31 61,75 | 5,28,29,3 30 | 30 | 30,31 | SA = — _||1,2,9,4,5,6,7,8,9,10,12,13,14,16,17,18,23,29,30 164,97] 13,14,21,22 4,8,14,16 = 5,8,14 E° = — ||2,7,22,23,25,26,27 39,00 | 26 25 sa —- È | Me 12:4,17,18.26,27 25,70| 26 26,27 22 = 96, — | — |1422,30 6,85 | 18 13,14 DE uu Bo —. — 232429 28,55 | 10 98 e na Sd — | — |3,12,2627 16,55 | 20,26 27 = = È | o — — ||1,2,5,13,14,15,18,19,20,21,24,25,29,30 167,28 | = ORSINI MN — id. | 18,24,30,31 ig | — — |1,2,3,8,9,10,11,12,14,15,16,17,18,19,20,21,99, |209,15|8,11,26 1,16,19,25 = - || 23,25,26,27,29,30 | 87) — — ||2,3,4,5,7,3,9,10,11,13,14,15,16,20,21,29,23,25, | 208,00 | 5,6,10,15,16,17,18, |16,20 = 16 26,27,28,29,30,31 | 19,20 | | 1087,25| I Massimo . . 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Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti BEVI O n O IR n SON EE e II VI RA gia i ANO IR te RI Ro Qt RARO Wall IN e BE A RE ERE RE TN) A : È DS e ca *k ut Der Ure (th st NE prati 7, AGENT DELLA REALE ACCADEMIA DI SCIENZE. LETTERE E BELLE ARTI DI PALERMO ez TTZ TERZA SERIE (Anno 1896 SD Volume IV. IAA PALERMO TIPOGRAFIA F. BARRAVECCHIA E FIGLIO 1897 Re DIA Di 1 DÒ SEI, MO | CV ARL (09) IV N Ra TI 7 AN LSM in sr n i ET o IO Dun À MARIANO TOSTI MR (TEST URANICIE) IRAN Va A ) Viù LUNGI HRNIADIO VARA HRADI 75 Sa sd CERESIO 3 Ae NESS / nn PESA I \ s rd na * Cc r “to to - (3) ) 43 WA54 RAZR RE GI ME RI x VITA TONI WA: i) tu Nel , È v \ » 1 I ali Mi 99) 9) ANI DI f ) è > z= À —_ - » P il LAT 24 N “a Wta N 3 Ò t v d) P È LO Î ) tà, pe ca » a\ À, }}4 r \ ' i NI n = j } " » i i x È , on 4 IN ee] DI fl e z d) NS) AN 3 au n ) di y A * dà î ) A e LN f I, PR x ì ate LA ) (NS ‘ à N N SAL ) VA Vi Up x Maga E } 4 y LT ' RL “d li ASA SS à N 0 | ) x . eg - Ue : Ù) } fi I ù ‘ x he 4 \ ) SY, STA ù, NP.) 4 ) a ì, è Ù x x \ fi Pi » 4 ) | SAITAI, 4 4 " si . i (i PIAN LA t À UN LLIAI et ) I RA } pi” sat tai. \ dA I) ( pei } n i N Pi Res ' ( # Ni 4, pi “ Va Ù f & y 4 \ a 7 e e VENE, Se De s MA ALE, IN ei AE \ ? i. 0) È; 5 n sw